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Danilo Ceccarelli per “La Stampa” - Estratti
Da cantore libertario a paladino della destra conservatrice. Una parabola dalle sfumature paradossali quella di Pavel Durov, che dopo il fermo scattato sabato sera all'aeroporto di Le Bourget, a Nord di Parigi, ha preso una piega geopolitica. Il fondatore dell'app di messagistica istantanea Telegram, nato a San Pietroburgo 39 anni fa e possessore di diverse cittadinanze tra cui quella francese, ieri sera risultava essere ancora sotto custodia della giustizia d'oltralpe
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Per uno strano incastro di dinamiche, il primo a correre in soccorso di Durov è stato proprio il suo Paese natale, che il miliardario ha lasciato nel 2014, dopo essere stato costretto a cedere a delle figure vicine a Vladimir Putin VKontakte, un social da lui creato nel 2006. Il miliardario all'epoca si era rifiutato di fornire al Cremlino i dati degli utenti, in particolare di quelli ucraini che avevano partecipato alle manifestazioni di Maidan. Tensioni continuate poi nel 2018, quando la giustizia russa provò a bloccare Telegram, suscitando le ire di molte ong.
Oggi l'Occidente «si morderà la lingua», ha dichiarato la portavoce della diplomazia di Mosca, Maria Zacharova, aggiungendo che l'ambasciata a Parigi «ha immediatamente iniziato a lavorare» sulla vicenda e accusa Parigi di «non collaborare». Per il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitry Medvedev, invece, Durov, «ha sbagliato i calcoli» lasciando il suo Paese.
A dare spiegazioni sullo zelo di Mosca ci ha pensato l'Ucraina, attraverso Andriy Kovalenko, capo del Centro per la lotta alla disinformazione presso il Consiglio di sicurezza e difesa nazionale: «È possibile che Pavel Durov abbia chiesto un incontro con Vladimir Putin a Baku qualche giorno fa, ma gli è stato rifiutato.
Ora la Russia è isterica perché l'unico messenger russo affidabile, Telegram, potrebbe essere sotto il controllo dell'Occidente», ha scritto sull'app, sostenendo che il caso «potrebbe anche far crollare l'intera rete di agenti russi in Europa».
dmitri medvedev vladimir putin
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Ma in difesa del miliardario russo si sono mossi i volti più noti degli ambienti reazionari occidentali, gridando ad un attacco alla libertà di pensiero e di parola. Gli scudi più grandi si sono levati dagli Stati Uniti, dove gli ambienti trumpiani sono insorti. Sul suo social X, Elon Musk ha lanciato l'hashtag #FreePavel, accompagnato dal video di un'intervista rilasciata dal suo collega a Tucker Carlson, giornalista vicino all'ex presidente, per poi attaccare direttamente l'Europa (con la quale è in conflitto per le politiche della sua piattaforma).
«La necessità di proteggere la libertà di parola non è mai stata così urgente», ha poi scritto Robert Kennedy Jr. ex candidato alla Casa Bianca recentemente ritiratosi per sostenere Donald Trump. Stessi toni da Edward Snowden, l'ex gola profonda che ha rivelato i programmi di sorveglianza dell'Nsa statunitense oggi rifugiatosi in Russia, che si è detto «sorpreso e profondamente rattristato» da fatto che Macron «sia sceso al livello della presa di ostaggi come mezzo per ottenere l'accesso alle comunicazioni private».
In Italia ci ha pensato Matteo Salvini ad alzare la voce contro Parigi: «In Europa siamo ormai alla censura, alla puzza di regime».
Adesso Durov resta in attesa di sapere se al termine del suo fermo verrà rimesso in libertà o posto sotto inchiesta. Restano però gli interrogativi sulla scelta di recarsi con il suo jet privato a Parigi dall'Azerbaigian accompagnato dalla guardia del corpo e dall'assistente, visto che il mandato spiccato dall'ufficio per la violenza sui minori poteva essere eseguito solamente sul territorio francese.
Una mossa forse dettata da un "senso di impunità", ha ipotizzato una fonte dell'Afp, dando l'idea della sicurezza con la quale operava l'imprenditore.
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