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C’è una cosa sola, una cosa soltanto, che l’America di Obama chiede all’alleato italiano dai tempi del governo Monti: occuparsi in prima persona della Libia, dove si fronteggiano due governi e dove il califfato dell’Is conquista posizioni giorno dopo giorno. Ebbene, dalla caduta di Gheddafi (autunno 2011) a oggi, l’Italia ha profondamente deluso Washington e ora si prepara addirittura a chiudere l’ambasciata a Tripoli, ultimo presidio diplomatico occidentale in Libia.
“Non possiamo pensare a tutto noi”, questo il succo del ragionamento che stava alla base della richiesta di Washington a Roma, fin dai tempi di Mario Monti premier. Una posizione ribadita anche a Renzi nell’incontro con Obama della scorsa primavera e, da ultimo, nella conference call di Obama dello scorso 15 ottobre con i leader di Italia, Francia, Regno Unito e Germania, in cui si è parlato della crisi libica. Del resto l’Italia ha storicamente grossi interessi nel Paese, a cominciare dalla presenza dell’Eni, come anche li ha la Francia (la testa di Gheddafi è saltata per il petrolio).
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Attualmente in Libia ci sono due regimi che si combattono. A Tobruk ha sede un governo, uscito dalle discusse elezioni dell’estate scorsa, sostenuto dalla Francia, dall’Arabia saudita e dall’Egitto. Mentre a Tripoli c’è un esecutivo che ha il controllo della Tripolitania e che è formato da un’alleanza tra islamici moderati, islamici radicali dell’organizzazione “Alba libica” e milizie di Misurata.
Questo secondo governo gode dell’appoggio di Turchia e Qatar. L’Italia si sforza di mantenersi equidistante e auspica una riunificazione, ma intanto è l’unica nazione occidentale ad avere mantenuto un’ambasciata a Tripoli. Da notare che nei mesi scorsi sono stati segnalati contatti e prove di alleanza tra gruppi legati all’Is e “Alba libica”.
L’elenco delle doglianze a stelle strisce sull’Italia è molto semplice: siamo accusati di non avere dispiegato nel Paese né uomini né soldi e di sottovalutare pesantemente i rischi di un’espansione del Califfato in Libia. Oltre a tutto, con l’Is che ha esplicitamente annunciato di voler arrivare a Roma, forse sarebbe il caso di prestare attenzione all’eventualità che le bandiere nere non passino proprio da Tripoli.
La novità è che il nostro governo sta pensando seriamente di chiudere anche l’ambasciata, affidata a Giuseppe Buccino Grimaldi. E anche le parole del neo ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ripetute due volte nelle ultime due settimane, sull’eventualità di un invio di militari come forza di “peace keaping” solo dietro preciso mandato Onu, sembrano confermare una certa volontà di lavarsene le mani.
La chiusura dell’ambasciata italiana sarebbe un altro segnale negativo anche per Washington e forse anche per questo l’ambasciatore preferirebbe evitarla. Almeno fin quando al Colle c’è Giorgio Napolitano, suo grande estimatore (era il suo secondo consigliere diplomatico).
Gli Stati Uniti sono anche piuttosto delusi dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti. Washington si attendeva una minima ripresa della spesa militare italiana, ma ha capito che con la ministra genovese non tira aria di grandi investimenti. Anzi. Alla fine c’è anche il “rischio” che il programma di acquisto dei famosi F-35 americani risulti dimezzato, esattamente come voleva Renzi.
Egualmente debole è ritenuto il capo di stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, il cui incarico scade a marzo e per la cui successione la Pinotti dovrebbe scegliere tra il generale Pasquale Preziosa, capo dell’Aeronautica, e il generale Claudio Graziano, capo di stato maggiore dell’Esercito (mentre tutto è in alto mare per la sostituzione di Leonardo Gallitelli ai vertici dei Carabinieri).
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