DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Marco Sabella per il “Corriere della sera”
Il tempo stringe perché con l' annuncio dello spegnimento degli altiforni dal 13 dicembre prossimo e l' inizio di una possibile battaglia legale dai contorni (e dai tempi) quanto mai incerti tra lo Stato italiano e ArcelorMittal, il governo è costretto a valutare con estrema celerità tutte le possibili opzioni sul tavolo per salvare l' acciaieria di Taranto e un segmento strategico dell' industria manifatturiera italiana.
Le possibili opzioni in campo appaiono in ogni caso condizionate dalla reintroduzione dello scudo penale, unica garanzia per i futuri soci o acquirenti di non andare a infilarsi in un ginepraio legale inestricabile capace di bloccare qualsiasi azione di risanamento. Il primo a ribadire la centralità di questo punto è il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, secondo cui è necessario ripristinare lo scudo. «Occorre ammettere l' errore che si è fatto, da cui si è determinata questa situazione», ha ribadito Boccia.
Tra le ipotesi sul campo c' è quella di un interessamento dei cinesi del gruppo Jingye, come riportato anche dal quotidiano «Il Sole 24 Ore». Il governo si appresta infatti a incontrare i consulenti di Ernst&Young che in passato hanno lavorato all' operazione di salvataggio delle acciaierie British Steel, rilevate appunto lo scorso maggio, dopo il fallimento, per un importo di 70 milioni di sterline (circa 81,5 milioni di euro). I cinesi contestualmente al salvataggio si sono in quel caso impegnati a rispettare un piano di riconversione degli impianti dal carbone a fonti di energia pulita che richiederà un investimento di 1,2 miliardi di sterline (1,4 miliardi di euro).
OPERAI FUORI DALLA FABBRICA ARCELOR MITTAL A TARANTO
L'opzione cinese potrebbe essere facilitata dal clima amichevole creato dall' intesa che i governi italiani, a cominciare dal Conte 1, hanno stabilito con le autorità di Pechino nel siglare il memorandum sulla «Via della seta», firmato lo scorso marzo, e che ha come obiettivo «impostare una più efficace relazione e costruire meglio i rapporti tra i due Paesi». Non dimentichiamo che l'Italia è stata, tra le polemiche, l'unico Paese dell'Unione europea a sottoscrivere questo tipo di documento con Pechino, puntando appunto alla costruzione di una relazione di partnership speciale con i cinesi.
Allo studio del governo esiste anche l'ipotesi di un intervento pubblico, che necessariamente prenderebbe forme diverse da quelle di una nazionalizzazione tout court dell' impianto di Taranto. A rendere impraticabile questa soluzione sono i numeri: con due milioni di perdita giornaliera e la forte riduzione di capacità produttiva determinata dalla chiusura dell' Altoforno 2, la capacità produttiva di Taranto è ridotta da 6 a 4,5 milioni di tonnellate e su questi livelli non potrà più impiegare gli attuali 10.700 addetti (più altri 1.700 in cassa integrazione).
Ecco dunque tornare in campo l' ipotesi di un intervento della Cassa Depositi e Prestiti, con un eventuale ingresso della Cdp nel capitale di Am Investco Italy, nella quale tuttavia i Mittal dovrebbero mantenere una posizione di rilievo. A questa ipotesi si oppongono le fondazioni, azioniste di Cdp al 15,9%. Evitando di assumere rischi eccessivi e in sintonia con il suo mandato di proteggere il risparmio postale da cui si alimenta, la Cassa potrebbe fare da capofila per creare attraverso società a partecipazione pubblica come Fincantieri o Finmeccanica un polo di nuove iniziative produttive legate al consumo di acciaio e localizzate nell' area tarantina.
C'è infine una opzione che guarda verso la Turchia, già presente a Taranto attraverso il gruppo Yilport, che ha in concessione il molo polisettoriale del porto cittadino. Si parla di un possibile interessamento all' impianto Ilva da parte del gruppo Oyak che controlla Ataer Holding, società che aveva avanzato una proposta di acquisto per le acciaierie British Steel, poi andate ai cinesi di Jingye.
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