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Massimo Vincenzi per La Repubblica
Il piccolo logo d'oro con scritto sotto Al Jazeera America sembra scolpito sul muro di cemento accanto al 305 west sulla 34esima strada a Chelsea, ma per vederlo bisogna sapere cosa cercare. Niente insegne luminose, niente cartelli pubblicitari, si intuiscono dei televisori dietro le tende che chiudono le vetrine affacciate sul marciapiede, ma verranno accesi solo domani al via ufficiale delle trasmissioni.
Parte da qui, dalla sede centrale di New York, l'ultima sfida della televisione del Qatar che va alla conquista del mercato più ricco e più difficile del mondo, quello made in Usa. In punta di piedi, con tanta ambizione ma poche parole perché, come ha scritto un sito specializzato in mass media, «hanno molti soldi, volti noti, buone idee ma anche un grande problema di immagine».
Ovvero far dimenticare al pubblico americano le dirette post Undici settembre quando dagli schermi arabi si affaccia Osama Bin Laden che ripete le sue minacce contro gli Stati Uniti. Viene poi la seconda guerra del Golfo e l'identificazione con il nemico ha il sigillo della Casa Bianca: «à un'emittente terrorista », dice l'allora Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld che non ama le metafore.
Negli stessi giorni, a Washington, il proprietario del palazzo dove c'è la prima sede di corrispondenza nega il permesso di esporre il marchio: «Non metterete la vostra bandiera sulle mie finestre», giura al momento della firma del contratto. Sono passati anni, che valgono un'epoca, c'è un'altra America, c'è Obama e le teorie degli uomini di Bush non dominano più nei dibattiti, ma il terrorismo rimane un incubo collettivo e cambiare l'umore del pubblico è il primo vero ostacolo che i manager e i giornalisti di Al Jazeera devono superare.
A Mike Viqueira, notista politico che seguirà il Congresso, quando esce l'annuncio del suo nuovo incarico intasano l'account di Twitter con insulti vari: «Trecento messaggi in poche ore: ma perché vai con quelli?» racconta ad Usa Today.
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