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Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera”
Nelle mappe ufficiali Gaven Reef è una scogliera disabitata al centro delle isole Spratly, nel Mar Cinese Meridionale. Quegli scogli affiorano solo con la bassa marea. Ma nelle immagini scattate a gennaio dai satelliti e analizzate dall’agenzia «Jane’s Defence», oggi Gaven Reef è una solida striscia in cemento di 75 mila metri quadrati con due moli, una pista per elicotteri, una costruzione quadrata con torri ai quattro angoli che possono ospitare postazioni antiaeree o radar.
Gaven è diventata un’isola artificiale fortificata e ci sventola la bandiera cinese. Le prime foto satellitari, all’inizio del 2014, avevano rilevato solo un avamposto di 380 metri quadrati allestito dai genieri utilizzando una draga della marina. Gaven ha tre sorelle: Hughes Reefs, Johnson Reef e Fiery Cross, tutte della stessa forma e dimensioni, con uguali installazioni in fase avanzata di preparazione. E tutte costruite dai cinesi. Sono circa a 210 miglia dalle Filippine e a 660 dalla costa della Cina.
«È una campagna metodica, pianificata per costituire una catena di fortezze con capacità navale e aerea al centro delle Spratly», dice James Hardy, direttore di Jane’s per l’Asia Pacifico. Il sistema di costruzione appare standardizzato, la ricognizione ha segnalato la draga della marina cinese «Tian Jing Hao» in zona a partire dal 2013.
I lavori partono con una prima piattaforma che poi viene allargata producendo il cemento da impianti allestiti sulla base. Il risultato è una sorta di Grande Muraglia in mezzo alle Spratly. L’arcipelago, rivendicato da Manila e Pechino, è conteso anche da Brunei, Malaysia, Filippine, Taiwan e Vietnam. Le Filippine hanno portato la questione davanti a un tribunale dell’Onu chiedendo l’arbitrato internazionale, ma la Cina ha rifiutato di partecipare.
Pechino va avanti con la politica del fatto compiuto. In gioco c’è non solo la rivendicazione nazionale delle Spratly (che in cinese si chiamano Nansha), ma forse il controllo delle rotte nel Mar Cinese Meridionale lungo le quali passano linee di approvvigionamento vitali anche per Sud Corea e Giappone.
Metà del traffico mercantile mondiale naviga in zona; quasi un terzo del greggio e metà del gas liquido percorrono quella via oceanica; i fondali sono ricchi di giacimenti petroliferi e le acque sfruttate per la pesca. E la Cina, oltre alle Spratly, rivendica con aggressività il 90 per cento dei 3,5 milioni di chilometri quadrati di quel mare.
A Johnson e Fiery i satelliti segnalano lavori per una striscia di cemento lunga tre chilometri e larga trecento metri: quanto basta per un aeroporto militare, strategicamente necessario alla Cina che dispone solo di una portaerei ancora in addestramento. Il genio cinese lavora in fretta alla catena di fortezze marine: «Dove avevamo osservato poche piattaforme ora ci sono isole artificiali con installazioni capaci di accogliere un numero rilevante di militari», ha detto James Hardy alla Cnn.
Washington ha chiesto a Pechino di abbandonare i progetti di espansione territoriale nella zona, la Repubblica popolare ha risposto con un editoriale del quotidiano di partito Global Times : «Gli Stati Uniti non sono imparziali, parlano di stabilità nella regione ma vogliono solo contenere la Cina». In realtà, i cinesi erano gli unici tra i contendenti delle Spratly a non avere una base militare tra le isole. Ma niente di simile a una fortezza: i filippini mantengono un avamposto di uomini sperduti su una vecchia e arrugginita nave da sbarco americana, la «Sierra Madre», incagliata tra gli scogli per rivendicare la sovranità.
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