DAGOREPORT – MATTEO FA IL MATTO E GIORGIA INCATENA LA SANTANCHÈ ALLA POLTRONA: SALVINI, ASSOLTO AL…
Carlo Bertini per “la Stampa”
Non poteva finire liscia: il cambio al vertice dei gruppi dem, imposto con un batter d' ali da Enrico Letta al grido di «è inaccettabile che vi siano solo maschi nei posti apicali del Pd», qualche strascico lo doveva produrre.
Il risultato politico (ancorché involontario) di tutta l' operazione infatti è che la parte moderata del partito (i cosiddetti ex Dc) ora ha in mano le redini del potere in tutti i suoi gangli. Dopo la nomina al Senato di Simona Malpezzi (ex renziana come Andrea Marcucci), domani ci sarà quella (salvo sorprese) di Debora Serracchiani alla Camera.
Frutto di un' intesa tra le aree di Graziano Delrio, Dario Franceschini, Lorenzo Guerini e Luca Lotti. Due donne a guidare la macchina parlamentare, dunque, come voleva il segretario. Ma anche un nuovo scontro tra correnti, con la sinistra del partito che si sente penalizzata. Ha perso il segretario e non avrà nessuno dei due capigruppo, un ben magro bottino.
Il venticello della calunnia Ma anche il leader sta pagando un prezzo: tra gli scranni dem a Montecitorio ha cominciato a soffiare «il venticello della calunnia» che, come insegna l' aria di Rossini, «va fischiando, brontolando e alla fin trabocca e scoppia». A sentire radio pd Parlamento, Letta non è restato imparziale, anzi sarebbe intervenuto, per interposta persona, nella partita: tre donne della sua segreteria (Lia Quartapelle, Susanna Cenni e Chiara Gribaudo, se pur di diverse correnti) si sarebbero spese a favore di Marianna Madia, rivale della Serracchiani.
marianna madia debora serracchiani raffaele cantone foto di bacco
Di qui il malumore nel gruppo, «perché chi sta in segreteria nazionale non si sbilancia per un candidato apicale, se il leader non vuole». Letta si tiene fuori dalla mischia, anzi sta ben attento a non dire "a" in quella che dovrebbe essere una competizione libera: in quanto - come ebbe a dire subito - non c' è alcun problema a contarsi su un nome.
A dire il vero, che vi sia qualche preferenza dalle parti del Nazareno a favore della Madia lo si è capito da svariati segnali: il fatto che la Madia frequentasse Arel, la fondazione di Andreatta «ereditata» da Letta, il plauso al suo coraggio nel denunciare per prima la guerra tra bande nel pd romano, e a quello dimostrato in questa occasione con la sua lettera-denuncia contro il gioco delle correnti. «Marianna è una tosta, che i voti se li è presi, sia nel 2013 alle "primariette" del Pd, che nel 2018 nel collegio...» nota qualche dirigente vicino al segretario. Serracchiani, fiutando il vento contrario, si è premurata di farsi da sola la campagna elettorale per arrivare blindata allo scrutinio segreto di domani, chiamando uno ad uno tutti i deputati.
GRAZIANO DELRIO DEBORA SERRACCHIANI
E assicurandosi che il patto Pd-5Stelle per dare la commissione Lavoro, che lei presiede, ad un altro esponente dem, regga agli urti della destra. Per Letta il risultato numero uno, due donne al vertice, è comunque ottenuto, non quello di garantire un posto di vertice alla sinistra riottosa. E i veleni riprendono a scorrere. «Io ci sono», replica Madia a Susanna Cenni, che aveva chiesto a lei e alla Serracchiani «di azzerare giochi correntizi e maschili». La presidente, Valentina Cuppi, prova a riportare il sereno. «Sono certa che le deputate e i deputati del Pd sapranno scegliere per il meglio e che le donne sapranno battersi affinché non prevalga alcuna logica correntizia».
Primarie e politiche del 2023 Ma in tutto questo, Letta è alle prese con la grana delle candidature nelle città dove si vota. La pratica è affidata a Francesco Boccia, che ha preso in mano i vari dossier. Quello di Roma è il più intricato: Letta sa che Conte proverà a convincere la Raggi a farsi di lato, con la promessa di fare la capolista dei 5stelle nel Lazio alle politiche, ma senza troppe speranze di convincerla. Il segretario dem spera di convincere Calenda a fare le primarie con Gualtieri: anche perdendo, guadagnerebbe numeri e potere per entrare da protagonista nel campo di centrosinistra in vista delle politiche. Una manovra per togliere a Renzi il progetto di costruire un grande centro.
«Serve un Pd unito in un campo largo che si allea con M5s - dice Boccia - non un Pd diviso dalle correnti».
2 - SERRACCHIANI-MADIA LE GIOVANI VETERANE CHE VOLEVANO SFIDARE LA NOMENKLATURA PD
Tommaso Labate per il “Corriere della Sera”
marianna madia debora serracchiani foto di bacco
«Io credo che sia mancata la leadership intesa come il mezzo per una linea politica di sintesi. Una linea politica che, pur nella più ampia discussione e nella più approfondita mediazione, necessaria in un partito grande come il nostro, alla fine deve arrivare alla sintesi. E la sintesi è mancata», disse l' una di fronte a una platea che - forse persa tra gli incisi e impegnata nello slalom tra le virgole - le tributò un battimani talmente scrosciante da fissare l' archetipo, era il 2009, di quella moneta d' uso corrente che si chiama «il discorso che fa impazzire il web». L' altra, l' anno prima, s' era beccata gli insulti per aver candidamente ammesso, dall' alto del suo esordio alle elezioni direttamente da capolista alla Camera, che avrebbe messo a disposizione del Paese la sua «straordinaria inesperienza».
MORETTI BOSCHI MADIA SERRACCHIANI
L' una e l' altra, che poi sono Debora Serracchiani e Marianna Madia, oggi si contendono - in una sfida resa incandescente più dai veleni della vigilia che dal pathos per la posta in gioco - la poltrona di presidentessa del gruppo Pd a Montecitorio. E mai contesa è stata finora così aderente allo spirito del partito, visto che entrambe sono una pura espressione di quel «piddismo a diciotto carati» non sporcato, anche per ragioni anagrafiche, da significative militanze nei partiti precedenti.
A dispetto di un metodo che sarebbe sembrato il tipico prodotto dei 5 Stelle degli esordi - l' applausometro che lanciò l' istantanea candidatura di Serracchiani alle Europee del 2009 e la «straordinaria inesperienza» vantata dalla Madia erano un leggerissimo anticipo sui tempi dell'«uno vale uno» - negli ultimi dodici anni le due deputate sono state in fondo lo Zenit e il Nadir del pianeta Pd, yin e yang che si fondono nello stesso simbolo. Una arrivava dal basso, l' altra dall' alto; una aveva usufruito dalla benedizione di Dario Franceschini per lanciarsi alle Europee del 2009, l' altra s' era fatta le ossa nella segreteria tecnica di Enrico Letta durante il governo Prodi dal 2006 al 2008.
Ma entrambi i profili, alla fine, sono finiti in quel limbo in cui - carriere alla mano - si capisce bene che cosa hai fatto ma non c' è un giudizio unanime sul come.
Europarlamentare e presidente di Regione Serracchiani, deputata e due volte ministra Madia, entrambe si sono trovare ad attraversare, a volte divise ma spesso insieme, le lunghe traversate nel deserto che nel corso della sua storia tormentata il Pd ha inflitto ai suoi dirigenti (e viceversa).
andrea marcucci matteo renzi 1
Il punto d' incontro - per biografie politiche che hanno incrociato il franceschinismo nel senso di Dario e il martinismo nel senso di Maurizio (Serracchiani) oppure il lettismo nel senso di Enrico, il bersanismo nel senso di Pier Luigi, a volte il dalemismo nel senso di Massimo (Madia) - è stato nella breve epoca d' oro del renzismo nel senso di Matteo. Epoca in cui «Debora» (guai a scriverla con la acca) e «Marianna» presidiavano l' una il partito, da vicesegretaria; e l' altra il governo, da ministra.
Lo scioglimento del ghiacciaio democratico alle elezioni del 2018, con tutto quello che ne è conseguito fino a oggi, le ha portate fin qua, all' ennesimo rimescolamento delle carte, nell' angolo del campo da gioco meno presidiato dalle telecamere. Veterane ma eternamente giovani, barricadere ma quasi sempre ai posti di comando, nemiche giurate della nomenklatura ma nomenklatura a loro volta, oggi Serracchiani e Madia sono al classico «una poltrona per due», che in politica si vede non solo alla vigilia di Natale.
La seconda sostiene che la sfida è viziata dal «tradizionale gioco di accordi», visto che a suo dire il capogruppo uscente Graziano Delrio tifa per la prima quando invece dovrebbe limitarsi a fare l' arbitro. E lancia l' ennesimo sasso contro quella cooptazione per cui in fondo, volgendo le spalle al passato, potrebbe in questo caso valere il vecchio paradosso di Pietro Nenni sulla purezza dei politici. A fare a gara a fare il cooptato, alla fine, trovi sempre uno più cooptato di te.
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