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Ernesto Galli della Loggia per Corriere della Sera
Già a distanza di tre giorni è chiaro che porre termine all'era Berlusconi non è per nulla facile, a dispetto di chi ci aveva assicurato del contrario appena conosciuta la decisione della Cassazione che ha condannato in via definiva il Cavaliere.
Non è facile, non solo perché il diretto interessato non sembra troppo disposto a farsi da parte; non solo perché né il Pd né il Pdl sembrano effettivamente intenzionati a muovere il primo passo verso la caduta del governo Letta e lo scioglimento delle Camere (così sfidando, tra l'altro, l'orientamento del presidente della Repubblica, presumibilmente per nulla entusiasta di una simile prospettiva), ma non è facile per un'altra e forse più sostanziale ragione. E cioè che politicamente dopo la fine dell'era Berlusconi non è dato vedere ancora nulla. Politicamente c'è il vuoto.
Sono anni, ormai, che il Paese aspetta un nuovo che non c'è. Da anni siamo un Paese che nell'ambito delle idee sulla società e sull'economia, così come sul piano delle proposte politiche e delle relative leadership, nella lotta contro i suoi mali storici, non riesce più a pensare e a produrre nulla di nuovo.
Scelta civica e il Movimento 5 Stelle sono stati gli ultimi tentativi abortiti di una ormai lunga serie: così Monti ha cessato da tempo di essere una riserva della Repubblica, Beppe Grillo è rimasto un attempato comico televisivo, mentre Matteo Renzi, dal canto suo, è già sul punto di apparire l'uomo di una stagione ormai trascorsa.
Ci mancano energie, idee, donne e uomini nuovi. Non per nulla, nell'assenza di qualunque soluzione audacemente imprevedibile, di una qualsivoglia inedita, valida, vocazione collettiva e personale, e stante l'incapacità sempre più clamorosa dei partiti di essere qualcosa di diverso dal passato, non ci è restato altro, per far comunque qualcosa di fronte all'emergenza, che ricorrere all'union sacrée di tutto il vecchio. A una versione aggiornata delle «convergenze parallele».
La verità è che siamo un Paese politicamente stanco, sfibrato, il quale troppo a lungo invece di guardare avanti si è perso nei reciproci risentimenti e nella recriminazione universale. I venti anni alle nostre spalle - i venti anni dell'era dominata sì da Berlusconi, ma in cui sulla scena c'erano pure tutti gli altri, pure tutti i suoi avversari - sono stati gli anni perduti della nostra storia repubblicana, i più inconcludenti e i più grigi. Gli anni della nostra dissipazione.
Più che quelli dell'era Berlusconi essi, a considerarli retrospettivamente oggi, appaiono soprattutto come l'ultimo ventennio del Dopoguerra italiano. Quello in cui abbiamo creduto che fosse ancora possibile continuare a mantenere in vita il vecchio modello precedente, al massimo con qualche aggiustamento ma conservando la sostanza di molte, di troppe cose.
D'altra parte, anche tutto questo sbraitare di grazie da estorcere e di Aventini da mimare potrebbe non essere altro che il frutto di un comprensibile choc emotivo, combinato con un meno comprensibile analfabetismo costituzionale. Pur tuttavia deve finire al più presto, perché produce danni, eccita le menti più deboli, degrada ulteriormente il dibattito pubblico e lascia nuove cicatrici sul corpo già martoriato delle istituzioni repubblicane. In momenti così sarebbe consigliabile ragionare con freddezza.
Il Pdl ha indubbiamente un problema politico molto grave, si potrebbe dire vitale: una leadership mutilata, e senza una seria alternativa. Il suo padre, fondatore e padrone, sta per uscire dal Parlamento a causa di una condanna penale contro la quale non vale più la pena di opporsi perché è definitiva. Una volta accertato - ci vorrà poco - che nessuno può cassare una sentenza della Cassazione, non resterà che decidere il che fare.
La soluzione che sembra prevalere in queste ore è la ritorsione. Il Pdl potrebbe far cadere il governo nella speranza di ottenere le elezioni il 27 ottobre, nella speranza di vincere, nella speranza di vincerle anche al Senato, nella speranza di fare una legge che miracolosamente ripulisca la fedina penale del capo e lo riconsegni immacolato alla Storia.
Non ripeteremo qui quale prezzo può pagare il Paese a un così traumatico e caotico azzardo politico. Si tornerebbe alle urne, nel cuore di una crisi drammatica, i cui esiti dipendono anche dal giudizio che sulla nostra stabilità danno i mercati e i governi europei, con un sistema elettorale incapace di produrre un vincitore. Più che alla greca, sarebbero uno scenario alla somala.
Ma consideriamo invece per un momento l'interesse di parte: quello del Pdl. Per quanto faccia, è altamente improbabile che ottenga le elezioni a ottobre. Non si può votare con una legge, il Porcellum, che poco più di un mese dopo, a dicembre, la Consulta si appresta a dichiarare incostituzionale.
Invece delle elezioni, la crisi di governo potrebbe invece provocare le dimissioni di Giorgio Napolitano, che del resto le aveva messe sul piatto come garanzia del senso di responsabilità comune lo stesso giorno in cui Berlusconi e Bersani gli andarono a chiedere, per favore, di accettare la rielezione.
à facile prevedere che il Pdl non farebbe parte della maggioranza per eleggere il nuovo capo dello Stato. In ogni caso, al governo Letta succederebbe un governo tecnico, di scopo, il quale farebbe una nuova legge elettorale senza il Pdl, e forse contro di esso, e che magari potrebbe approfittarne per dare libero sfogo legislativo a qualche storica ossessione antiberlusconiana.
Il Pdl infilerebbe così il vasto elettorato di centrodestra in un ghetto politico, in cui non potrebbe che coltivare l'estremismo, il vittimismo e l'agitazione, rischiando così di trasformarsi in un grande Msi della Seconda Repubblica. E quando pure arrivasse alla agognata meta del voto, tra mesi e mesi, avrebbe lo stesso il suo leader agli arresti domiciliari, fuori dal Senato, e incandidabile.
Come fa il Pdl a non vedere che questo è esattamente ciò che sperano i suoi peggiori nemici, i quali infatti soffiano quotidianamente sul fuoco dell'identità del Pd pur di appiccare comunque l'incendio? Ci deve essere un'altra strada per salvare, insieme all'onore politico, anche la prospettiva di un moderno partito moderato e conservatore, di destra europea, di cui l'Italia non può e non deve fare a meno.
E questa strada la deve trovare, ancora una volta, Silvio Berlusconi. Come lui stesso ha detto, egli è «quasi alla fine della sua vita attiva». In quel «quasi» c'è lo spazio e la chiave per risolvere il suo dilemma personale senza distruggere il suo lascito politico.
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