DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Massimo Gaggi per “il Corriere della Sera”
Il guerriero riluttante guiderà l’attacco della coalizione contro l’Isis ma non manderà altre truppe Usa a combattere in Iraq e Siria. E non perché è spaventato dal video minaccioso messo in rete dai propagandisti del «califfato» poche ore dopo la testimonianza al Congresso nella quale il generale Dempsey aveva ipotizzato un cambio di rotta di Washington sull’uso delle truppe di terra, ma perché, come scrivono gli analisti di Stratfor , un massiccio impegno americano rischia di spingere i popoli e le potenze della regione, dall’Arabia Saudita alla Turchia, a restare a guardare.
Per questo ieri, parlando a Tampa, in Florida, ai militari di CentCom, il comando militare Usa per l’Asia centrale e il Medio Oriente che è la «cabina di regia» degli attacchi aerei contro l’Isis, Barack Obama ha sostenuto con molta determinazione che «questa non è una battaglia che l’America combatterà da sola: non faremo in Iraq il lavoro che spetta agli iracheni», e ha sottolineato che sono già oltre 40 i Paesi che hanno offerto assistenza nella lotta contro l’Isis in Iraq e Siria.
Non sarebbe corretto parlare di smentita al capo di Stato maggiore perché Martin Dempsey, rispondendo a domande incalzanti dei parlamentari, l’altro ieri si era limitato a dire che, se la strategia appena lanciata non funzionerà e le cose si metteranno male, tornerà alla Casa Bianca con altre proposte, compresa quella di usare truppe in combattimento.
Ma è evidente l’intenzione del presidente di raffreddare la temperatura anche sul piano del linguaggio: il Pentagono, il suo stesso portavoce Josh Earnest, e alla fine anche il segretario di Stato, John Kerry, hanno cominciato a usare il termine «guerra» per descrivere l’offensiva decisa dalla Casa Bianca, mentre Obama ha continuato anche ieri a definirla una «strategia antiterrorismo».
Dunque, proprio mentre va nel comando di Tampa per discutere col generale Lloyd Austin, capo di CentCom, i prossimi attacchi della «fase due del conflitto», quella dell’appoggio esplicito ai combattenti di terra che sfidano l’Isis, Obama sottolinea che tutti devono fare la loro parte: «L’iniziativa spetta a noi perché siamo gli unici capaci di mobilitare grandi forze, di costruire coalizioni, gli unici con le risorse e la tecnologia.
Quando succede qualcosa nel mondo, un uragano, un terremoto, un conflitto, chiamano sempre noi, anche quando non ci amano. E noi ci mobilitiamo come stiamo facendo, ad esempio, per Ebola, mandando tremila nostri uomini in Liberia. Ma ognuno ha il suo ruolo: per questo stiamo dedicando queste settimane alla costruzione della coalizione che deve eliminare la minaccia dell’Isis».
In un discorso molto patriottico in un hangar della base di Tampa, il presidente ha ringraziato i militari che aveva davanti per le missioni che hanno svolto nel mondo, ma ha anche promesso che non metterà la loro vita ulteriormente in pericolo sul campo di battaglia: «I soldati che abbiamo appena inviato in Iraq dovranno offrire supporto alle truppe combattenti locali, non sostituirle».
Obama aggiunge che è proprio per raggiungere questi obiettivi che «stiamo dedicando queste settimane alla costruzione di una coalizione» ampia e con impegni chiari. Ed elenca puntigliosamente i contributi dei francesi e degli inglesi «che stanno già volando con noi sull’Iraq», mentre a terra l’Arabia Saudita ha accettato di ospitare i campi nei quali verranno addestrati 5.400 combattenti siriani dei gruppi sunniti «moderati», Australia e Canada manderanno anche loro consiglieri militari in Iraq. Cita anche la Germania che ha offerto paracadutisti come istruttori.
Insomma, grande enfasi sullo sforzo collettivo perché «la storia ci ha insegnato che, quando interveniamo noi americani, se i popoli locali non combattono per il loro destino, appena noi ci ritiriamo tutto torna come prima».
Sullo sfondo sembra di intravedere la preoccupata analisi del presidente del centro di analisi strategiche Stratfor , George Friedman, ripresa ieri dal New York Times : l’interesse americano ad affrontare il problema dell’Isis e a evitare catastrofi in Medio Oriente non significa che «gli equilibri in quell’area debbano essere mantenuti direttamente dagli Stati Uniti. Turchia, Iran e Arabia Saudita hanno molti più interessi in gioco di Washington. Devono rimboccarsi le maniche. Ma se si convincono che gli Usa terranno la situazione sotto controllo, è razionale per loro tirarsi indietro e stare a guardare».
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