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Alessandra R. di Milano, lettera a “la Repubblica”
Mio figlio, 14 anni, terza media, è stato “irretito” da un gruppetto di giovani rom. Ha commesso qualche scemenza di poco conto, poi ha iniziato a vivere nel terrore. Ricatti, gambe bruciate con le sigarette (ho le foto). La scuola ne è al corrente, la polizia pure. E tutti tentano di intervenire, credo. Nella sua classe (zona residenziale «bene» milanese) su 21 allievi gli italiani sono 7. Il che, con buona pace di Salvini & C., non mi crea alcun problema.
Sono abituata a ospitare i compagni di mio figlio (figlio unico) a pranzo, cena e anche per periodi prolungati nella nostra casa in montagna. Però (c’è un però) il “nomade” per definizione è migratorio, non stanziale. Come è possibile che in una scuola media permangano ragazzi che, bocciati ogni anno, compiono 15, 16, 17 anni restando nello stesso istituto (e quindi potendo operare proselitismi circa alcune attività non propriamente lecite) a oltranza? Un nomade passa e va. Non resta fermo per 10 anni.
Da brava mamma italiana mi preoccupo molto per un figlio caduto come un pollo nella rete, ma mi angosciano altrettanto questi ragazzini che sono incaricati di tessere la rete (spaccio, minacce, eccetera) in modo continuativo, dal momento che si chiamano “nomadi” solo sulla carta.
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