DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Marco Travaglio per “Il Fatto Quotidiano”
Niente da fare, è più forte di loro. Per i corazzieri la lingua è il secondo muscolo involontario: si rizza e scatta da solo, col pilota automatico, e non c’è verso di sedarlo. Un po’ come il braccio teso del dottor Stranamore. Non è bastato il fatto che l’altroieri Giorgio Napolitano abbia risposto per oltre tre ore a una sessantina di domande di magistrati e avvocati nel processo sulla trattativa Stato-mafia, andando ben oltre la striminzita letterina con cui credeva di cavarsela e dimostrando che quelle domande era giusto farle e che di cose interessanti da dire ne aveva parecchie.
Non volendo ammettere il ceffone che han preso dall’amato Monarca non appena è riuscito a liberarsi di loro, le cozze appiccicate al suo scoglio fanno di tutto per nascondere ai loro eventuali lettori la parte utile della sua testimonianza: quella in cui, primo esponente delle istituzioni del 1992-'93 a farlo, Napolitano ha rivelato che Scalfaro, Ciampi, Spadolini e lui erano perfettamente consci della matrice corleonese e del movente ricattatorio delle stragi: lo Stato che di lì a poco cominciò a calarsi le brache con la revoca del 41-bis a 334 mafiosi detenuti era sotto ricatto e sapeva benissimo di esserlo.
Chi reputa la testimonianza inutile in quanto “lo sanno tutti che le stragi servivano a quello” non sa cos’è un processo: a parte il fatto che l’ex ministro Conso (indagato per falsa testimonianza) e altri politici ripetono che l’allentamento del 41-bis non fu conseguenza delle stragi perché non se ne conosceva una matrice certa (e Napolitano, come i documenti del Sismi, della Dia e dello Sco, lo smentisce), i processi non si fanno con i “lo sanno tutti”.
Se un fatto non viene messo nero su bianco da un testimone del tempo, non esiste. Il dolo, cioè l’intenzione di favorire la mafia nel disegno destabilizzante e ricattatorio contro lo Stato addebitata agli imputati istituzionali (Mannino, Dell’Utri, Mori, Subranni, De Donno), presuppone proprio la consapevolezza sul chi e sul perché di quel progetto. Perciò la testimonianza di Napolitano sull’estate '93 è ritenuta preziosa dai pm.
Tutt’altra faccenda è il caso D’Ambrosio: lì non si sa se augurarsi che Napolitano abbia detto la verità o abbia mentito. Se ha detto la verità, ne consegue che la lettera del suo collaboratore sugli “indicibili accordi”, parole che lui stesso ora riconosce “drammatiche”, lo lasciò indifferente, infatti non gliene chiese conto nei 40 giorni che precedettero la sua morte per infarto. Se ha mentito, e invece gliene chiese conto ma ha preferito non dirlo ai giudici, ne guadagna la sua personale ansia di verità, ma non la sua sincerità. Nel primo caso sarebbe un ignavo, nel secondo un falso testimone, e francamente non si sa cosa sia peggio.
Ma su questo dilemma la stampa corazziera sorvola, al punto di manipolare le parole del presidente (con l’eccezione, una volta tanto, di Repubblica e Corriere, dove i cronisti prevalgono per un giorno sugli aiutanti di campo). Libero: “Re Giorgio smonta la trattativa e pure i magistrati”, “Due righe per una verità: non ci fu alcun accordo”. Il Tempo: “Napolitano fa saltare la trattativa”.
Avvenire: “Il limpido stile di Napolitano: ‘Accordi? Mai’”. Manifesto: “Mafia: ‘Nessuna trattativa, ma lo Stato era ricattato’”. Ora, anche nella più scalcinata scuola di giornalismo, lo studente che facesse un titolo così su quanto è accaduto al Quirinale verrebbe cacciato e consigliato di dedicarsi all’agricoltura.
Napolitano non ha mai detto “nessuna trattativa”, “nessun accordo”: ma che lui non ne venne a conoscenza, e solo nel 1992-'93. Dal 1996, quando Giovanni Brusca svelò la trattativa Stato-mafia ai giudici di Firenze, subito confermato da Mori e De Donno (che parlano di “trattativa” tout court con Ciancimino, senza l’aggettivo “presunta”), tutti sanno. A maggior ragione Napolitano, all’epoca ministro dell’Interno. Quanto agli “accordi”, per giunta “indicibili”, glieli mise nero su bianco nel 2012 D’Ambrosio. Quindi, con buona pace dei tre quarti della stampa italiana, Napolitano non ha smentito né smontato un bel niente. Anzi, tutto il contrario.
C i sono poi le genuflessioni dei paggetti e giullari di corte, che gabellano il suo atto normale e doveroso – testimoniare come ogni buon cittadino – per un estremo sacrificio, fra l’eroismo e il martirio. Matteo Orfini, presidente del Pd, dice che “dobbiamo ringraziare Napolitano per l’altissimo senso dello Stato di cui anche oggi ha dato prova. Il suo attaccamento alle istituzioni democratiche e al Paese si riflette pienamente nella decisione di rendere testimonianza spontanea. Ma aver voluto accostare la più alta carica dello Stato a una fase oscura della vita del nostro Paese è fonte di grande disagio e lascia sinceramente interdetti”.
Qualcuno, magari in un’altra vita, riuscirà a spiegare al pover’uomo che non c’è nulla di spontaneo nella testimonianza: Napolitano è stato citato dai pm e convocato dalla Corte. Ma soprattutto nessuno l’ha “accostato” ad alcuna “fase oscura”: a parte lui stesso, che si è autoaccostato rispondendo alle richieste indecenti di Mancino e poi divulgando la lettera di D’Ambrosio. Del resto, se uno assiste per strada a un omicidio ed è chiamato a testimoniare al processo, nessuno dirà che lo si vuole accostare all’assassino. Altre lingue felpate riportano con grande enfasi il monito di Napolitano: “Trascrivere e divulgare subito il verbale”. Oh bella, sta’ a vedere che è colpa dei giornalisti, se il Colle ha tenuto la stampa fuori della porta. Bastava consentire il collegamento audio, e le sue parole le conoscerebbero già tutti.
Il Giornale, come sempre, vive in un mondo tutto suo. Dopo averla sempre negata, beatifica la trattativa e chi la fece (“Quella zona grigia dove lo Stato scarica i suoi eroi”, cioè i carabinieri felloni che trescavano con Cosa Nostra). Poi si duole del fatto che Napolitano abbia ricevuto i giudici, anziché trincerarsi nelle segrete del Quirinale dietro sacchi di sabbia e cavalli di frisia.
Così ha subìto una “umiliazione” che segna la sua “triste fine”: testimoniare davanti ai giudici è come riconoscere politicamente le Brigate rosse. È il mondo alla rovescia di padron Silvio, che paragonò i magistrati alle Br e alla banda della Uno Bianca, poi accusò il giudice spagnolo Baltasar Garzón di essere “colluso con il pool di Milano”.
Il meglio comunque lo danno i commentatori un tanto al chilo, che non hanno mai letto una carta del processo, ma se la tirano da grandi esperti.
Stefano Folli, sul Sòla-24ore, sostiene che “non è riuscita la prova di forza anti-Quirinale” e si lagna perché Napolitano ha “finto di ignorare il carattere pretestuoso dell’interrogatorio, quasi uno “show” mediatico volto a risollevare un processo il cui impianto accusatorio sembra zoppicante”. Di quale show vada cianciando, non è dato sapere, visto che nessuno ha visto né sentito nulla. Fortuna – osserva Folli in trasferta su Marte – che la Corte “ha evitato il rischio che la testimonianza diventasse occasione per qualche strumentalizzazione a favore di telecamera”.
Quali telecamere non si sa, visto che erano tutte in strada, a meno che Folli non voglia far credere che è stata la Corte a ostracizzare la stampa: invece la Corte l’aveva ammessa e il Colle l’ha esclusa. Per Folli, comunque, “della testimonianza si poteva fare tranquillamente a meno”. Poveretto, dev’essersi spettinato un po’. Ma ora, prevede, “il teorema verrà smontato un pezzo alla volta” e lui potrà fare la nanna tranquillo.
Sul Messaggero, il giurista per caso Stefano Cappellini non ha dubbi: “L’udienza è stata inutile e dannosa: il suo unico effetto concreto è aver permesso all’avvocato di Riina di fare passerella al Quirinale” (ma tu pensa, ora nei processi fanno entrare persino gli avvocati, dove andremo a finire).
Per il resto, se trattativa c’è stata, bisognerebbe processare chi l’ha fatta su “ipotesi di reato chiare, non essendo ancora il reato di trattativa compreso nel Codice penale”. Infatti gli imputati rispondono del reato chiarissimo di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, art. 338 del Codice penale. Ma tutto questo Cappellini non lo sa, infatti scrive.
Antonella Rampino della Stampa è molto contenta per non aver potuto assistere all’udienza, evitando così “il Grande Circo” (chissà qual era il suo numero). Ed è molto offesa, al posto dell’amato Sovrano, perché il pm Di Matteo l’ha chiamato “il teste”,senza aggiungere Augusto, o Magnifico. Michele Brambilla ci spiega invece che il processo si basa sul “nulla”, quindi se lo dice lui siamo tutti più tranquilli. Purtroppo resta “il fango lasciato sulle istituzioni”.
Da chi? Dal Ros che trattò con la mafia, non perquisì il covo di Riina, fece scappare Santapaola e Provenzano? Dai servitori dello Stato che fecero sparire l’agenda rossa di Borsellino e depistarono per vent’anni le indagini? Dai governi che si calarono le brache? No, da “una campagna dissennata”,indovinate di chi.
Così ora la stampa estera parla del nostro presidente che testimonia su fatti di mafia, subornati dalla “disinformatia messa in scena qui da noi in Italia”. Con grave nocumento per il Tricolore. Già, perché non è stata la Corte d’assise a convocare Napolitano: è stata la nostra “campagna mediatica” a “portare alla deposizione del Quirinale”. Cioè: Napolitano l’ha fatto testimoniare il Fatto Quotidiano. Peccato sia una balla. Però, dài, sarebbe fantastico.
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