Matteo Marcelli per ''Avvenire''
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Lavoro irregolare, precario, che non basta a mantenere se stessi e la propria famiglia. Come quello di Roberto, 53 anni, bracciante agricolo nelle Langhe. La schiena piegata di chi ha già dato molto, ma gettare la spugna non è un' opzione, anche se con il Covid ha rischiato davvero di andare al tappeto.
VOLONTARI CARITAS A CATANIA
Roberto è quello che si definisce un working poor: il suo è un impiego che sarebbe anche sufficiente per tirare avanti se solo non ci fossero tre figli da mantenere e da mandare a scuola, magari da portare fuori a cena ogni tanto, come farebbe una famiglia normale.
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«Se in questi mesi non ci fosse stata la Caritas non avrei potuto tirare avanti - racconta ad Avvenire -. Sono stato costretto ad accetare qualche offerta in nero e non mi era mai successo. Non vorrei continuare così, ma per il momento non c' è altra soluzione».
volontari aiutano i poveri a milano
Sul filo della povertà. Come un "acrobata della povertà", Roberto è riuscito a sopravvivere. Ma il suo non è un caso isolato, come stiamo raccontando sulle pagine del nostro giornale nell' inchiesta sulla pandemia sociale. Sono molti, troppi, i lavoratori che durante il lockdown hanno visto crollare all' improvviso il loro reddito, andando a ingrossare la sacca di povertà assoluta del Paese.
Sfruttati, mal pagati, a volte mortificati e privi di una rete di sostegno sociale adeguata. Il Focus di Censis e Confcooperative pubblicato ieri, "Covid, da acrobati della povertà a nuovi poveri", ha provato per la prima volta a contarli e lo scenario che ne esce è drammatico.
I numeri della ricerca parlano da soli: sono 2,1 milioni le famiglie con almeno un componente che lavora in maniera non regolare e oltre un milione può contare solo su stipendi in nero (il 4,1% sul totale delle dei nuclei italiani).
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Di queste, più di 1 su 3, vale a dire 350mila, è composta da cittadini stranieri. Un quinto ha minori fra i propri componenti, quasi un terzo è costituita da coppie con figli, mentre sono 131mila le famiglie possono contare esclusivamente sulll' impiego non regolare di un unico genitore.
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Il lavoro senza tutele si concentra soprattutto al Sud, dove copre il 44,2% degli impiegati, ma non va meglio nel resto del Paese: il 20,4% nel Nord Ovest, il 21,4% nelle regioni centrali e il 14% nel Nord Est.
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Gli effetti del Covid. La situazione era già grave prima del coronavirus, ma la pandemia ha pericolosamente allargato la platea dei lavoratori finiti in ginocchio. Durante i mesi di lockdown 15 italiani su 100 hanno perso e più del 50% del loro reddito, mentre 18 su 100 hanno subito una contrazione compresa fra il 25% e il 50%, per un totale di 33 italiani su 100 con un introito ridotto almeno di un quarto.
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Ancora più drammatica la situazione fra le persone con un' età compresa fra i 18 e i 34 anni, per le quali il peggioramento inatteso delle propria situazione economica ha riguardato 41 individui su 100 (riduzione di più del 50% per il 21,2% e fra il 25% e il 50% per il 19,5%).
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In sintesi, la metà degli italiani (50,8%) ha sperimentato un' improvvisa caduta delle proprie disponibilità economiche, con punte del 60% fra i giovani, del 69,4% fra gli occupati a tempo determinato, del 78,7% fra gli imprenditori e i liberi professionisti. La percentuale fra gli occupati a tempo indeterminato ha in ogni caso raggiunto il 58,3%.
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La sfiducia. Un quadro che si rispecchia nelle attese dei lavoratori intervistati per i prossimi 12 mesi: se il 49,2% prevede una sostanziale stabilità del reddito rispetto a quello precedente il Covid-19, il 47% considera probabile una contrazione (per il 7,0% superiore al 50%), e solo il 3,8% prevede un aumento.
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Il 55% della popolazione teme poi l' eventualità che si possano diffondere rabbia e odio sociale, il 50% ipotizza un forte aumento della disoccupazione, mentre il 33,9% ha paura che l' intervento dello Stato possa essere insufficiente per la sanità e per le misure di contrasto alla povertà.
Più concentrato sugli aspetti della sanità il 27,2% delle risposte, che guarda al rischio che il coronavirus possa ridurre l' attenzione rispetto ad altre patologie gravi, mentre il 25,5% teme di veder svanire i risparmi di una vita.
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«Il paese vede la sua competitività ferma al palo dal 1995.
Abbiamo un' occupazione più bassa della media europea. Un deficit che è cresciuto di 20 punti e un Pil che chiuderà con un rosso a due cifre, sfondando il tetto del 10%. Abbiamo una geografia sociale ed economica del Paese molto sbilanciata - ragiona Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative - con poco meno di 23 milioni di lavoratori, oltre 16 milioni di pensionati, 10 milioni di studenti (con una formazione che non è sempre d' eccellenza) e oltre 10 milioni di poveri. Il problema non è il deficit, ma la capacità o meno di poterlo pagare».
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Ecco perché in merito al Recovery Fund «servono subito risorse per politiche strutturali che tendano sia alla salvaguardia dell' attuale occupazione, ma soprattutto alla creazione di nuovo lavoro - spiega Confcooperative -. Solo rilanciando innovazione, competitività e occupazione potremo far fronte ai debiti che abbiamo contratto, ridurre le diseguaglianze e costruire un modello di Paese più equo e più sostenibile».
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