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    PRIMA DI QATAR E RUSSIA, ANCHE NOI SFRUTTAVAMO IL “SOFT POWER” DELLA DITTATURA –  IL LIBRO “MONDIALI SENZA GLORIA” DI GIOVANNI MARI RIVELA LE “PESANTISSIME OMBRE” SU DUE DEI QUATTRO MONDIALI VINTI DALL’ITALIA, QUELLI DEL 1934 E DEL 1938, MACCHIATI DA REATI SPORTIVI E POLITICI, SCANDALI E CORRUZIONE DA PARTE DEL REGIME FASCISTA – MUSSOLINI NON AMAVA IL CALCIO, MA AVEVA DA SUBITO CAPITO LA SUA FORTE PENETRAZIONE SOCIALE – GLI ARBITRI COMPRATI NEL MONDIALE IN CASA DEL ’34, I QUARTI DI FINALE DEL '38 GIOCATI CON LA MAGLIA NERA E IL C.T. VITTORIO POZZO NEL 1938 ORDINÒ AI GIOCATORI...


     
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    Paolo Brusorio per “Tuttolibri – la Stampa”

     

    mondiali senza gloria di giovanni mari mondiali senza gloria di giovanni mari

    Quattro stelle sul petto e non è il momento di lucidarle. Domani in Qatar cominciano i Mondiali di calcio e l'Italia resta a guardare per la seconda volta di fila. Un buon periodo allora per rifugiarsi nel tempo, c'è stata un'epoca in cui eravamo re, una recente e una che affonda le radici nel passato. L'Italia ha vinto quattro volte il titolo mondiale, solo il Brasile ha fatto meglio con cinque, e qui si parla delle prime due, quelle che fino al 1982 ci hanno tenuto nel gotha del pallone. Era il 1934 e poi il 1938. 

     

    «Se si studiano bene i fatti si scopre che la metà dei titoli vantati dagli azzurri è però macchiata da pesantissime ombre. Da reati sportivi e politici, da vergogne - quelle davvero - mondiali e storiche». L'affermazione è pesante e seppur evidentemente non inedita mette i brividi: sta nel lungo incipit del libro di Giovanni Mari, Mondiali senza gloria il cui sottotitolo è la sentenza: la vittoria del 1934, comprata da Mussolini, e quella fascistissima del 1938. Una radiografia, questo libro, che non fa sconti: non al trionfalismo e neanche alle emozioni.

     

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    Dove si sta parlando di un regime che ha capito come il pallone avrebbe potuto divulgare l'idea e soprattutto l'ideologia, quello che oggi chiameremmo soft power e che allora di soft non aveva proprio nulla. Convincere gli italiani di essere una potenza sul campo di calcio li avrebbe convinti di poterlo essere anche al tavolo dei grandi, avrebbe offuscato la capacità di pensiero critico travolto da un'euforia collettiva malata e pericolosa. Scrive ancora Mari: «Per questo la vittoria doveva essere perseguita con ogni mezzo: quello lecito e sportivo, se possibile, quello della scorciatoia e del baro se fosse servito».

     

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    Mussolini non amava il calcio, lo considerava troppo poco elegante rispetto, per esempio, alla ginnastica o alla corsa, ma ne capì in fretta la forte penetrazione sociale. L'Italia vince il titolo Mondiale nel 1934 e poi nel 1938, saranno quei successi l'apogeo sportivo della potenza fascista, ma siamo nel 1927 quando si toccano con mano le prime evoluzioni di regime: sulla maglia della Nazionale compare lo stemma fascista accanto a quello dei Savoia ed è nell'anno successivo, Olimpiadi di Amsterdam, che viene reso obbligatorio per gli atleti il saluto con il braccio teso una volta saliti sul podio. Ed è un fedelissimo del duce, Arpinati, a fondare nel 1929 la serie A a girone unico.

     

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    Fertilizzato il terreno, era il momento di pensare in grande. Era il momento di costruire il Mondiale perfetto, estrema illusione di un paese perfetto. Anzi, di una Nazione perfetta. Non c'è mondiale senza stadi, come avremmo tristemente scoperto dopo Italia '90, e almeno qui il regime dimostrò di avere una marcia in più. Architettura fascista: ne avremmo sentito ancora parlare. Lo stadio Mussolini che oggi è lo stadio Olimpico Grande Torino ma che fino ai Giochi del 2006 rimase identico a quando fu costruito. E poi gli impianti in tutta Italia, il Littorio a Trieste, tanto per dire.

     

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    Tre milioni e mezzo costò il Mondiale del 1934. Lo vinciamo perché la squadra era forte: gli oriundi con tanti saluti all'italica razza, un centravanti come Meazza, tra i più forti giocatori della nostra storia. Già, Meazza. A scoprirlo Arpad Weisz, allenatore ungherese, vittima delle leggi razziali fino alla deportazione e alla morte ad Auschwitz. Weisz cui, a proposito di stadi costruiti dal fascismo, a Bologna hanno intitolato una curva. 

     

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    Poi certo, Monzeglio imposto perché amico della famiglia Mussolini. In panchina Vittorio Pozzo: il ct più vincente della storia del nostro calcio, accusato per una vita di essere funzionale alla macchina della propaganda. Alpino, amante della disciplina, nazionalista: Arpinati lo scelse per questo e per la sua competenza. Fino a che punto il regime fu motore e sponsor delle nostre vittorie? Vero gli arbitraggi ci strizzarono l'occhio e a volte, come in Italia-Spagna, gli occhi li chiusero proprio. 

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    Vero l'arbitro della finalissima salì fino al palco d'onore per salutare Mussolini con le squadre schierate in campo, e figuratevi, i pensieri dei giocatori dell'Ungheria. Ma quella Nazionale era di buon livello e in fondo la vittoria, spinta dalla propaganda dalle «convincenti» maniere di un regime che si stava allargando non fu così clamorosa. Tanto da ripetersi nel 1938 dove le condizioni ambientali non furono proprio le stesse. 

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    Per dire: l'esordio azzurro avvenne a Marsiglia, casa per molti esuli antifascisti. La Nazionale fu accolta malissimo, i giocatori insultati, il saluto romano in campo coperto dai fischi. E Pozzo? Ecco, il ct ordinò di rialzare il braccio che i giocatori avevano abbassato intimiditi dal pubblico, «l'Italia non doveva avere paura». Quasi nulla a confronto della scelta della maglia nera da indossare contro la Francia nel quarto di finale giocato a Colombes. 

     

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    Una scelta di marketing politico ideata, scrive Mari, da Starace e colta al volo da Mussolini. In nero contro la Francia antifascista. Poi battuta. Arriverà il secondo titolo mondiale consecutivo, il 1938 finisce in gloria per il calcio italiano. Mussolini celebra la «razza italica». Da lì a poco sarà l'inizio del periodo buio. E del terrore.

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