Marino Niola per La Repubblica
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GLI incendi divampano sul Vesuvio. Gli abitanti scappano e i turisti fotografano quella colonna di fumo che accanto alle paure di oggi evoca i fantasmi di ieri. Perché un fronte di fuoco di due chilometri è di per sé uno spettacolo impressionante, oltre che una tragedia ambientale.
Ma se lo sfondo è il vulcano più famoso del mondo, all' ecologia si sovrappone automaticamente la mitologia e quelle fiamme diventano subito qualcosa di maledettamente simbolico. L' immagine di un dies irae, la punizione di Gomorra, il risveglio del monte sterminatore che ispirò a Leopardi il vertiginoso incipit della Ginestra. Insomma, città di mare con apocalisse. Ed è così da sempre.
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In realtà, non è il Vesuvio che appartiene a Napoli, ma è Napoli che appartiene al Vesuvio. E questo spiega il carattere degli abitanti di una terra contesa tra il mare e la lava. Espressivo ed esplosivo, ottimista e fatalista, vitale e teatrale. Pieno di quella proverbiale esuberanza tellurica che rimescola godimento e sentimento, passione narcisistica e scoramento malinconico.
Molti grandi viaggiatori hanno spiegato il temperamento dei partenopei proprio con la presenza incombente del fuoco che circonda da ogni parte la città e i suoi dintorni. Da Pompei ai Campi Flegrei, l' arco del golfo è tutto una linea di fuoco che disegna le acque. Forse per questo Goethe diceva che i napoletani sono schiacciati tra il bello e il terribile, tra l' armonia celeste e il furore infernale. E aggiungeva che non sarebbero più loro, se non si sentissero stretti tra Dio e Satana.
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Ancor più esplicito era il grande drammaturgo russo Anton Cechov che, dopo essere disceso nel cratere, scrisse alla moglie Marija: "adesso finalmente credo all' inferno". Come dire che Napoli senza il Vesuvio non sarebbe Napoli. Amico e nemico, fantasia poetica e presenza terrificante, motivo d' inquietudine e illustrazione da cartolina, oggetto di devozione religiosa e terreno d' indagine scientifica, ispirazione per la canzone e location per il cinema. Non si tratta di semplice natura, ma piuttosto di un monumento alla natura e alla sua potenza sconfinata.
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Una schiacciante metafora della fragilità umana che viene da molto lontano. Visto che a inaugurarla è Plinio il Giovane con il suo emozionante racconto dell' eruzione del 79 dopo Cristo. Il cataclisma che fece al mondo il dono dell' archeologia. Perché, contrariamente a quel che si dice, la pioggia di ceneri incandescenti non ha distrutto Pompei, ma l' ha costruita. E custodita.
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Insomma, per la sua stessa forza archetipica la bocca da fuoco resta un' allegoria, un emblema, un logo. Come intuì quel geniale inventore di icone pop che fu Andy Warhol, che non esitò a mettere il vulcano accanto alla zuppa Campbell' s e alla Coca Cola, a Mao e a Marylin. Facendone un' icona glocal. Ieri come oggi, la paura del fuoco resta l' ologramma del nostro rapporto con la natura. La differenza è che una volta era il Vesuvio a bruciare uomini e cose. Adesso sono gli uomini a bruciare il Vesuvio. Un' eruzione in effetto reverse.
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MARINO NIOLA
ERUZIONE VESUVIO