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    "VAGONI MERCI, CHIUSI DALL'ESTERNO, E DENTRO UOMINI DONNE BAMBINI, COMPRESSI SENZA PIETÀ…” – PRIMO LEVI E I RACCONTI DAL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI FOSSOLI, IN PROVINCIA DI MODENA, DOVE, INSIEME AD ALTRI QUATTRO AMICI, VENNE IMPRIGIONATO PRIMA DI ESSERE TRASFERITO AD AUSCHWITZ: LÌ, CON L’ILLUSIONE CHE LA VITA TRASCORRESSE “QUASI NORMALE”, SPERAVANO CHE LA GUERRA SAREBBE FINITA PRESTO - E INVECE AD ATTENDERLI C’ERA LA GERMANIA...


     
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    Estratto dell’articolo di Marcello Pezzetti per “la Repubblica”

     

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    «L'alba ci colse come un tradimento… Alla stazione di Carpi... ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio… Vagoni merci, chiusi dall'esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all'ingiú, verso il fondo».

    Così descrive Primo Levi, in Se questo è un uomo, la partenza da Fossoli per Auschwitz.

    Il chimico Primo era stato arrestato il 13 dicembre 1943 con il medico Luciana Nissim e il chimico Vanda Maestro in un alberghetto di Amay, sul Col de Joux, dove si trovavano, con Guido Bachi e Aldo Piacenza, per organizzare la loro partecipazione alla lotta contro il fascismo.

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    […] Dopo circa un mese furono inviati a Fossoli, dove, nel luogo in cui si trovava un campo di concentrazione per prigionieri di guerra, il 5 dicembre era stato istituito dalle autorità italiane il campo di concentrazione nazionale per ebrei, in base all'Ordinanza di polizia del Ministero degli Interni del 30 novembre. A partire da questi dati, iniziarono ad essere inviati in questo luogo, autonomamente gestito e sorvegliato dagli organi di Polizia italiana, gruppi sempre più numerosi di ebrei arrestati in tutto il territorio della RSI.

     

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    Una illuminante descrizione del campo in questa prima “fase italiana” si deve proprio a Luciana, in una rarissima testimonianza rilasciata sui resti delle baracche del campo agli inizi degli anni '90: «[…] Probabilmente ti vedrai al di fuori delle persone libere. Questo sì, colpiva questa gente che era fuori dai fili spinati. Ma non c'era quest'aria di terribile disgrazia, anche se oggi sembra un po'grottesco». Questo ingannevole clima di tranquillità, racconto da rendere la situazione quasi “normale”, venne descritto da diverse testimonianze

     

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    […] Ulteriori motivi di illusione furono la mancanza di personale nazista; la costante e rassicurante presenza del parroco di Fossoli, don Francesco Venturelli, munito del permesso di entrare per occuparsi dei convertiti al cattolicesimo, ma che prestò aiuto anche a molti ebrei “puri”; il contatto, sempre più sistematico, con alcuni abitanti del luogo che svolsero “funzioni speciali” (fornaio e barbieri); l'organizzazione interna della vita affidata agli stessi prigionieri, che gestirono autonomamente le varie mansioni (capo campo, vari capo baracca, responsabilità dell'alimentazione e della cucina, delle attività culturali e addirittura “ludiche”);

     

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    l'assenza, infine, di maltrattamenti da parte del personale di sorveglianza (carabinieri, uomini della Ps e della Milizia), in particolare del direttore del settore ebraico del campo, Domenico Avitabile, vicecommissario di Pubblica sicurezza. Questa fu la grande illusione che vissero i tre giovani intellettuali giunti dal carcere di Aosta, che fecero vita comune fino alla deportazione e ai quali si aggiunse Franco Sacerdoti, ebreo napoletano trasferitosi a Torino e arrestato in Val di Lenzo.

     

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    […]

    Nemmeno l'arrivo di sempre più numerosi blocchi familiari ebraici e la presenza di numerosi anziani, tra cui un folto gruppo proveniente dalla casa di riposo israelitica di Venezia, suscitò in quei giovani forti dubbi sulla sorte loro riservata. «Io non avevo il senso dell'ebraismo, della persecuzione; me l'ero aggiustata così, che io era una combattente, subiva l'infelicità, i dolori, i rischi di chi aveva deciso, in quel momento, di combattere… Per me non era il preludio della morte. Era un momento di passaggio da una vita a un'altra. Insomma, la vita continuava».

     

    […]

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    A gennaio, infatti, le autorità tedesche e quelle italiane si erano accordate sul fatto che le prime avrebbero potuto procedere alla deportazione nei campi del Reich degli ebrei arrestati nel territorio della RSI. Dopo l'invio di due piccoli trasporti di ebrei anglo-libici a Bergen-Belsen, da usare come “merce di scambio”, il 22 febbraio si procedette alla prima deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Nessuno se l'aspettava: «Come scrive Primo — testimoniò Luciana –, noi stavamo mangiando, sono arrivati gli italiani: “Domani mattina partite!”. Ci stavamo facendo uno spaghetto, abbiamo smesso di mangiare questo spaghetto. “Domani si parte per la Germania!”. Ce l'hanno detto in quel momento lì, dalla sera alla mattina. E lì è stato il momento della... fine».

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    Il mattino dopo, alla stazione di Carpi, i quattro amici appresero la loro destinazione: Auschwitz, “un nome privo di significato”. Giunti al Brennero, riuscirono a buttare dal vagone dei biglietti scritti a mano a familiari e ad amici comuni, che arrivarono a destinazione.

    Giunti alla Judenrampe di Birkenau, furono divisi. Scrisse Primo: «Ci salutammo, e fu breve; ciascuno saluterà nell'altro la vita». Tutti e quattro furono selezionati per il lavoro coatto. Primo e Franco vennero portati in camion a Buna-Monowitz; Luciana e Vanda furono avviate, a piedi, a Birkenau. La sorte di Primo è conosciuta da tutti; Franco morì nel gennaio del 1945 durante la marcia di evacuazione.

     

    Luciana venne impiegata come medico nel Frauenlager del campo, quindi trasferita in un sottocampo all'interno del Reich, da dove, prima della liberazione, riuscì a fuggire.

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    Alcuni anni dopo sarebbe diventata una famosa psichiatra. Vanda, purtroppo, come disse Luciana, «…è stata una sommersa subito. Le si sono subito gonfiate le gambe, si trascinava a stento. Un mese dopo l'hanno selezionato». Un'altra dottoressa italiana deportata, la triestina Bianca Morpurgo, riuscì a somministrarle un barbiturico: «All'ultimo momento le ho dato un tubetto di Gardenal! È stato un vero strazio», scrisse Bianca a Luciana in una lettera alla fine del 1945.

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    Luciana raccontò che le ultime parole che sentì da Vanda furono: «Se avrai una bambina, chiamala Vanda» e questo avvenne: «Ho avuto una bambina che è nata morta. La bambina che ho avuto, che è nata morta, si chiamava Vanda».

    Degli oltre 600 ebrei deportati ad Auschwitz-Birkenau con il primo trasporto da Fossoli ne tornarono 25, i soli sopravvissuti.

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