(ANSA) "Rispetto a letture giornalistiche di stamani preciso, per evitare fraintendimenti, che noi rimaniamo alla decisione presa insieme nella Direzione nazionale del Pd il 30 giugno: il governo Draghi è per noi l'ultimo della legislatura". Lo scrive il segretario del Pd Enrico Letta su Istagram.
Laura Cesaretti per “il Giornale”
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Persino i più indulgenti o i più invaghiti, nel Pd, sembrano stavolta aver esaurito la pazienza con l'(ex?) alleato Giuseppe Conte. Complici anche i disastrosi sondaggi (e i risultati delle amministrative) che fotografano un'emorragia ormai inarrestabile che rende i Cinque Stelle ormai poco sexy anche ai fini dell'aritmetica elettorale: raccontano che due giorni fa, durante un forum di Repubblica, il grillino Cancelleri sia sbiancato quando la maga dei numeri Alessandra Ghisleri ha parlato di rilevazioni che danno il Movimento, nel lato basso della forbice, al 6%.
Ieri, nei capannelli di parlamentari dem che aspettavano l'esito del voto sul decreto Aiuti, si mettevano le mani nei capelli: «Ma come si fa a dire (come ha fatto Conte, ndr) che alla Camera votano la fiducia e al Senato, sullo stesso identico testo, devono ancora decidere che fare?». Ovvio che nessuno ci creda, e si aspetti sorprese nell'aula di Palazzo Madama: «Si suiciderebbero». Anche Enrico Letta, che pure ha mediato fino all'ultimo per dare una mano a Conte ostaggio delle bande impazzite dei parlamentari che lo tirano da una parte e dall'altra, si è «stufato», dicono i suoi:
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«La mattina parli con lui e ti dice che giammai aprirebbe la crisi e che bisogna aiutarlo a tenere la linea, poi lo chiama la Taverna o legge Dibba e si spaventa e cambia idea», è lo sfogo del segretario raccontato da un senatore dem. Chiuso il decreto Aiuti, con tanto di termovalorizzatore, e accantonato (parrebbe) il «no» alle armi all'Ucraina, di qui alla pausa estiva difficilmente ci saranno altre occasioni per giustificare uno strappo col governo e un appoggio esterno che consenta di far caciara a mani libere.
Poi, da fine estate, si aprirà la sarabanda della legge di bilancio. E nel Pd si sta facendo largo l'idea che, una volta portata a casa (ed è chiaro a tutti che sarà una via crucis), i giochi vadano chiusi: «Poi basta, si va a votare: impossibile andare oltre», spiegava il responsabile Enti locali Francesco Boccia ad alcuni deputati. L'ipotesi di andare al voto a fine maggio, che sembrava aver preso piede nelle ultime settimane tra Quirinale, Palazzo Chigi e partiti, viene accantonata. Lo stesso Letta, parlando ieri delle dimissioni di Boris Johnson a Londra, sottolineava: «Ogni paese ha le sue regole, l'Italia andrà al voto nei prossimi mesi. Questione di poco». Scioglimento a gennaio, voto tra marzo e aprile: «Sarebbe la cosa giusta», dice il segretario.
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Non è un caso che proprio in queste ore dal Pd sia partita - con l'avallo del Nazareno - un'ultima offensiva sul fronte legge elettorale: l'ipotesi di un proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione che superi la soglia del 40%, con cancellazione dei collegi uninominali. L'unica proposta, dicono i dem, che potrebbe tentare anche il centrodestra, con Meloni interessata al premio e la sanguinosa spartizione dei collegi. E che libererebbe il Pd dal giogo di un'alleanza stretta con Conte: persino l'ex segretario Zingaretti, tra i principali fautori del matrimonio, ora dice «si sta insieme se c'è un progetto condiviso».
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E il ministro del Lavoro Orlando, della sinistra dem finora più filo-contiana, avverte i 5S che non si può «mettere a repentaglio la stabilità e la credibilità stessa delle istituzioni», per di più su questioni puramente «simboliche». E prende le distanze anche dal massimalismo sui contenuti: i minimi salariali devono «derivare, comparto per comparto, dai contratti più rappresentativi».
Lasciando Conte, solo, ad agitare la bandierina del «salario minimo a 9 euro».
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