Maria Berlinguer per “la Stampa”
domenico de masi
«Assediati dall' epidemia stiamo imparando in fretta molte cose. Per esempio che uno non vale uno e in questa fase un virologo è assai più utile di un sociologo. E ancora che la sanità pubblica è meglio di quella privata e che è bene che sia controllata dallo Stato e non dalle regioni, per non parlare dei sovranisti che volevano abbattere la globalizzazione, ora in stato confusionale di fronte a un virus che non rispetta i limiti geografici, un' epidemia che possiamo sconfiggere solo mettendo in comune ricerche ed esperienze a livello mondiale. E poi dei no vax, dei terrepiattisti e delle fake news con la grande rivincita dei giornali, delle tv e delle radio».
Il sociologo Domenico De Masi il primo testo sul telelavoro lo ha scritto 40 anni fa. Nel '91 ha fondato senza scopo di lucro la Sit, la società italiana telelavoro, per spingere i governi a favorire lo smart working, convinto che i vantaggi per aziende e lavoratori del lavoro domestico sia irrinunciabili. Parole cadute nel vuoto se fino al 2019 sono 570mila italiani hanno telelavorato.
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E ora?
«Sotto la pressione di fatti imprevisti e drammatici sta diventando possibile lavorare da casa. Quello che sta accadendo in questi giorni è un grande esperimento sociologico. Su 23 milioni di lavoratori in Italia 16 milioni svolgono lavori intellettuali. 8 su 10 di questi potrebbero lavorare da casa con grandi vantaggi per il lavoratore che potrebbe gestire i suoi tempi, decidere se lavorare di giorno o di notte, restare in pigiama o vestirsi, interrompere per un caffè con un amico o andare a fare la spesa.
Risparmierebbe tutto il tempo che occorre per raggiungere il posto di lavoro e lo stress che questo comporta, oltre il costo della benzina o dei trasporti. Potrebbe avere un rapporto conviviale con il quartiere dove abita, oggi spesso ridotto a zona in cui si dorme. Tutti vantaggi che aumenterebbe la sua produttività».
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E l' azienda cosa ne guadagnerebbe?
«Un aumento di produttività dei dipendenti, come dimostrano tutte le esperienze realizzate. Inoltre avrebbe molti risparmi. Meno persone in azienda, meno canoni di affitto e meno bollette. Non parliamo poi dei vantaggi che la collettività avrebbe dal cambio di passo in termini di minore inquinamento atmosferico».
Un quadro idilliaco. Allora perché il lavoro agile in Italia non ha preso piede?
«È andato a sbattere con la volontà dei capi di avere i lavoratori sotto controllo ravvicinato, non si fidano dei loro dipendenti. Io la chiamo la sindrome di Clinton che infatti doveva avere la stagista a portata di mano. Per far decollare il lavoro agile è necessario un cambio totale di passo: non è il processo produttivo ciò che conta ma l' obiettivo che ti è stato dato. Puoi lavorare da casa tua, dalla spiaggia o dal tuo bagno.
Quello che conta è il risultato finale».
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In questi giorni sono molte le aziende che hanno optato per il telelavoro. Quando, speriamo tutti presto, finirà l' incubo coronavirus si tornerà in ufficio come prima?
«Difficile dirlo anche perché c' è il rischio che i vantaggi innegabili dello smart working siano associati alla prigionia che tutti stiamo subendo. Quando finalmente finirà questa pandemia magari avremo tutti voglia di tornare nel traffico e in ufficio. Non siamo degli indios, il caos, il traffico e il rumore fanno parte della nostra vita. Stare in casa 24 ore su 24 non appartiene al nostro modo di vivere. È anzi un rischio per le coppie che sono in crisi e per le famiglie dove non c' è dialogo con i figli. Le nostre emozioni finora le giocavamo in più campi da gioco: l' ufficio, gli amici magari lo sport. Ora c' è solo la casa dove facciamo i conti con la ridistribuzione degli spazi. La convivenza forzata tira fuori ed esaspera il peggio e il meglio di tutti noi, i conti li faremo alla fine».
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Come sono cambiate le sue giornate?
«Non molto. Anche prima lavoravo molto in casa. Certo esco poco, piccole passeggiate. Dal '66 abito a corso Vittorio Emanuele, trafficatissimo anche di notte. Ieri a mezzogiorno ho fatto un giro fino a piazza Navona: eravamo in quattro, compreso un barbone».
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