Benedetta Tobagi per “la Repubblica”
“Southern trees bear strange fruit…”: nel 1939, la voce ipnotica di Billie Holiday ruppe l’omertà e il mondo intero dovette fissare lo sguardo sulla pratica oscena dei linciaggi nel sud degli Usa. Gli “strani frutti” erano i cadaveri degli uomini di colore impiccati (e variamente brutalizzati, prima e dopo) da orde di bianchi, perché si presumeva si fossero macchiati di qualche reato. Nella più grande democrazia del mondo il linciaggio era distinto dall’omicidio.
LIBRO DEAGLIO
La “giustizia sommaria” amministrata senza processo era assai popolare tra gli ex schiavisti e si consumava nel silenzio complice dei più. Gli storici stimano siano avvenuti tra i quattro e i cinquemila linciaggi solo tra 1887 e 1907, gli stessi anni in cui nell’Europa orientale infuriavano i pogrom e in Francia si consumava l’ affaire Dreyfus. Ben pochi sanno, però, che la stessa fine feroce toccò in sorte anche a non pochi immigrati italiani.
Siciliani, per la precisione. Cinque di loro, linciati a Tallulah, Louisiana, la notte del 20 luglio 1899, sono i protagonisti di Storia vera e terribile tra Sicilia e America (Sellerio, pagg. 224, euro 14), agile ma accurato saggio storico in forma narrativa di Enrico Deaglio (lo stile ricorda le prose limpide con cui Stajano ha illuminato tante pagine dimenticate della storia patria).
EMIGRANTI ITALIANI NEGLI USA
Nelle terre fertili bagnate dal Mississippi li chiamavano dagos, termine dall’etimo incerto: protagonisti di una vasta ondata migratoria a cavallo tra Otto e Novecento, sfuggivano alla miseria della Sicilia postunitaria, dove la speranza di ottenere terre e giustizia suscitata dai garibaldini era stata repressa nel sangue dai Savoia.
Si ritrovarono alla stregua di prigionieri nelle grandi piantagioni, a rimpiazzare gli schiavi negri liberati dalla Guerra di Secessione nella raccolta di cotone e soprattutto canna da zucchero: la “zuccarata”, considerato il lavoro più faticoso del pianeta, era uno dei più necessari, da quando, con l’industrializzazione, il mondo occidentale s’era “dolcificato” fin nelle abitudini della classe operaia. Qualcuno riuscì a sottrarsi al travaglio massacrante ricavandosi una nicchia al grande porto di Nuovaorlenza ( come i siciliani chiamavano New Orleans) e nel commercio: tragica ironia, proprio a loro, venditori di agrumi, meloni e frutta esotica, toccò di diventare strange fruits .
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Deaglio s’imbatte in questa storia attraverso le chiacchiere imbarazzate delle parenti della moglie italo-franco- irlandese-americana, e decide di andare a fondo. Troppi fili legavano i “fatti di Tallulah” all’attualità, per ignorarli: le tragiche migrazioni che approdano in Sicilia, anziché salparne; i ritorni di fiamma del razzismo in Europa (uno studio recentissimo del Pew Research Center in ambito Ue registra un triste primato per gli italiani: siamo il popolo che vede con maggiore sfavore rom e musulmani); le uccisioni pubbliche nel vicino Oriente… Ma a muoverlo è soprattutto la simpatia umana per la sorte dei cinque underdogs di Cefalù, figli di Annibale dagli occhi nerissimi, un po’ minacciosi e un po’ ridenti, come quelli dell’ignoto marinaio dipinto da Antonello da Messina.
«Spero di trovare – scrive – qualcosa che dopo un secolo mi provi che […] furono dei martiri, che ci sia una giustizia da ristabilire».
PIANTAGIONI COTONE
Provarono a farli passare per mafiosi, ma la loro storia fu piuttosto “una Cavalleria Rusticana all’incontrario”. Fu la white trash , la popolazione bianca dell’ex Confederazione sudista, rabbiosa e impoverita (com’è simile l’umanità di allora a quella, desolata, di oggi, magistralmente raccontata da Roberto Minervini nel documentario Louisiana ) a cercar vendetta contro una comunità in ascesa sociale.
Alle vite burrascose dei dagos , Deaglio regala il respiro di un racconto che, sin dalla prima pagina, si accende di frequenti richiami a Cent’anni di solitudine e risuona di echi evangelici, fino al climax emotivo del decimo capitolo, quando i cinque linciati prendono parola da una Spoon River senza lapide. «È stato per il commercio, non per la razza »: il loro destino è dannato dalla logica implacabile delle guerre tra poveri, sottoprodotto delle grandi manovre di sfruttamento economico.
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Si legge d’un fiato, il libro di Deaglio, e lo si chiude con la sensazione di avere stretto nuove e inattese sinapsi tra frammenti di reminiscenze scolastiche sulla storia del Risorgimento e la grande scena del mondo (visto che l’esame è alle porte, consiglio la lettura anche ai maturandi). La microstoria dei fratelli Defatta s’intreccia con le figure titaniche di Lincoln e Garibaldi, una star internazionale così carismatica, al tempo, che le forze dell’Unione provarono ad arruolarlo come proprio generale.
Dalle pagine dei fogli locali, i “fatti di Tallulah” rimbalzano fino al celebre discorso (“la grande proletaria si è mossa”) con cui Giovanni Pascoli, nel 1911, benedisse l’avventura italiana in Libia. Scopriamo quanto poco il Regno d’Italia si curasse della sorte dei suoi figli; l’ondata migratoria dalla Sicilia al sud degli Usa fu fortemente incentivata in base ad accordi precisi (e illegali, poiché la legge statunitense vietava l’immigrazione su chiamata) tra Louisiana Planters Association e gli ambasciatori italiani.
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La pseudoscienza di Lombroso ebbe immenso successo oltreoceano, a supporto delle politiche segregazioniste. Il Dizionario delle razze italiano di fine Ottocento, che distingueva due ceppi razziali, quello settentrionale, celtico, e quello meridionale, di derivazione africana, fu superato solo quando il fascismo postulò un’unica razza “ariana mediterranea”, erede dell’Impero Romano, per poi varare le leggi razziali contro gli ebrei.
L’Italia di allora fu complice muta e opportunista.
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Ci volle una donna avvocato, Mary Grace Quackenbos – la prima a entrare nell’ufficio procuratore federale – per rompere il silenzio sulle pratiche di sfruttamento quasi schiavista cui erano soggetti i dagos ( s’infiltrò nelle piantagioni e stilò un rapporto che, censurato in America, giunse però sul tavolo dell’ambasciatore italiano); e fu un ex schiavo negro, Booker Taliaferro Washington, che, liberato, viaggiò attraverso l’Europa come un Tocqueville all’incontrario, a firmare uno degli studi più approfonditi sulla miseria siciliana: frutti sorprendenti della solidarietà tra oppressi.