Massimo Zamboni per “la Lettura - il Corriere della Sera”
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‘’Per cominciare, un sacco di gente li odiava». Facile lasciare fiorire l’aneddotica dovendo trattare di un duo come i Suicide. «Avevo un coltello e una catena, e mi ferivo e roba del genere, mi tagliavo. Ho ancora cicatrici dappertutto». Se l’incidersi il braccio destro con una lametta, il tagliarsi la faccia sul palco con un bicchiere rotto, lo spaccare a colpi di asta di microfono le bottiglie di birra degli spettatori, il girare per strada con il nome Suicide scritto con le borchie sulla giacca in pelle nera rischiano di consegnare la loro storia artistica a una già vista iconografia da maledetti, la pubblicazione di Suicide.
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Dream Baby Dream di Kris Needs (traduzione a cura di Caterina Micci, Goodfellas edizioni) appare come un’ottima occasione per ristabilire le dimensioni esatte della vita e delle carriere di Alan Vega e Martin Rev, grandi sovvertitori di regole all’interno di quella musica che ci ostiniamo a chiamare con larghezza «rock».
Osteggiati in patria e fuori al punto da essere oggetti di vera e propria repulsione — cui seguono episodi di violenza che il libro puntualmente riporta, dal lancio di sedie a quello di una scure diretta alla testa di Vega durante il tour europeo assieme ai Clash — i Suicide rimangono artisti poco conosciuti in Italia, se non da un’esigua minoranza felice di sentirsi tale.
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Alla quale è dedicata in primo luogo questa pubblicazione che avviene — senza che ve ne sia stata la volontà editoriale — a pochi mesi di distanza dalla scomparsa del cantante Alan Vega, «morto in pace nel sonno» secondo l’annuncio della famiglia, all’età di 78 anni. Una longevità e una modalità di uscita di scena del tutto impensabili, date le premesse, per un artista che presentava le sue prime performance live come Punk Mass — una messa punk — sette anni prima dei vagiti di Sex Pistols, Clash e compagni. E che incide il suo primo solco discografico alla bella età di 39 anni, dopo avere introiettato per decenni tutta la straordinaria eccitazione artistica della New York che lo aveva generato.
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Un lunghissimo percorso di formazione che porta i due artisti a incrociarsi tardivamente «come due vascelli che si incontrano nella notte», dopo la scoperta del jazz di Albert Ayler e Lennie Tristano, della sensualità di Presley, del corpo flagellato di Iggy Pop, del macabrismo dei Velvet Underground, del glamour dei New York Dolls. Idee sufficientemente chiare per non farsi fagocitare dall’orbita della Factory di Andy Warhol, una sfacciataggine da quartieri bassi nell’irridere l’ira del vate Allen Ginsberg che rimproverava loro quel nome tetro che si erano scelti: Suicide.
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«Avemmo la stessa fortuna che ebbero Jagger e Richards quando si incontrarono», racconta Alan Vega parlando dell’intuizione felice di non allargare l’organico del gruppo. «Sostanzialmente si è sempre in due a creare una band». Un intenso rodaggio sui palchi peggiori della città prima di arrivare, nel 1977, alla pubblicazione dell’album di esordio. Copertina bianca, uno scarabocchio di sangue scarlatto, il loro nome in nero.
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Un peso specifico imprevedibile, capace di influenzare tanto nell’immediato che come onda lunga una serie infinita di artisti anche lontanissimi da quegli stilemi, primo fra tutti Bruce Springsteen che li omaggerà ripetutamente, eseguendo da solo all’harmonium la loro Dream Baby Dream in tutti i bis del tour di Devils and Dust. A seguire, con riconoscenza, la scena newyorchese e britannica che si andava formando a fine anni Ottanta, da Lydia Lunch — che cura la prefazione al presente libro — a Billy Idol, Clash, Cramps, PJ Harvey, Henry Rollins, Elvis Costello tra gli altri.
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Inutile dire delle recensioni d’epoca, dove si sprecano le accuse di plagio: «Si stuprano e si saccheggiano interi concetti », «musica elettronica inumana, fredda ostilità», «pornografia astratto-espressionista». Ma agli ascoltatori più attenti di quegli anni i Suicide appaiono da subito una rivelazione: in tempi di rabbia affidata a chitarre sonanti e rulli di tamburo, la sola tastiera con batteria elettronica di Martin Rev è più di un oltraggio, è una vera e propria apertura di porte.
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Una violenza che non si scatena in alto volume ma che scava in profondità, capace di dissolvere al nero i confini del defunto sogno americano. Suites elettroniche per la voce miagolante, sussurrata o urlata, di Alan Vega, capace di liriche ansiogene, scurissime, in un clima di tensione montante che si sfoga esemplarmente nel loro brano più celebre, quel Frankie Teardrop che pare prendere le mosse dal Bob Dylan più ossessivo, quello della Ballata di Hollis Brown, ma che invece di raccontare la desolazione, la vive.
Canzoni che ribaltano l’idea della canzone, lunghe cantilene dove gli amori hanno il fiato pesante e le paranoie armano i fucili di bravi cittadini criminali in potenza. Il loro live non è di minor impatto: Martin un automa in piedi, cappello, occhiali enormi, l’esperienza della migliore musica americana condensata nelle mani, Alan fascia in fronte da «cacciatore» di Michael Cimino, faccia da guappo, sguardo frontale, vestiti da periferia.
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Oltre a compilare un inventario completo dello stato dell’arte del secondo dopoguerra americano, il libro di Kris Needs, scritto con autentica devozione da parte dell’autore e qualche ridondanza, segue tutto il percorso successivo dei due Suicide, congiunto e come solisti, dal singolo Jukebox Babe che andrà a ben figurare nelle classifiche europee, alla svolta rockabilly più legata alla tradizione, a quella Viet Vet di 13 minuti che ti sprofonda nella palude vietnamita, urlata da un Alan Vega esentato in gioventù dal servizio militare per essere stato dichiarato, letteralmente, pazzo. Un viaggio quasi quarantennale, il loro, fino all’America più recente, quella colpita dall’11 settembre, cui viene dedicato l’album American Supreme. Una confessione di patriottismo viscerale e impotente, perfetta colonna sonora per la parabola del continente nordamericano.
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