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    QUANDO LAMOTTA FINI’ SOTTO BOTTA - 70 ANNI FA IL “MASSACRO DI SAN VALENTINO” A OPERA DI “SUGAR” ROBINSON SU JAKE LAMOTTA - DECINE DI MILIONI DI AMERICANI DAVANTI ALLA TV: DAL NONO ROUND, ROBINSON COMINCIÒ UN SELVAGGIO MARTELLAMENTO, I GUANTI DA 6 ONCE FACEVANO MALE - LA MOTTA PAGAVA IL PESO SBAGLIATO E L'IDEA DI BERE DEL BRANDY PRIMA DEL MATCH. GLI ULTIMI 7 MINUTI FURONO UNA CARNEFICINA, RAY SCAGLIÒ 56 COLPI DI FILA, I FANS URLARONO DI FERMARSI…


     
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    Riccardo Signori per “il Giornale”

     

    jake la motta e sugar ray robinson jake la motta e sugar ray robinson

    «Vi giuro che se non ero mai passato attraverso un inferno, quella fu la volta buona». Lo chiamarono il massacro di San Valentino, 14 febbraio 1951, 70 anni fa. Jake La Motta non lo scordò mai. Ray Sugar Robinson fu il suo inferno di pugni, ma provò anche altro.

    «Ore e ore di bagni di vapore, non ne potevo più. Dentro e fuori, dentro e fuori: due chili da smaltire la sera prima del peso. Avevo sete. Volevo acqua. Sennò, dissi, non sarei mai salito sul ring. Mi diedero da leccare un cubetto di ghiaccio». Un cubetto di ghiaccio per dissetarsi e lo stomaco vuoto per affrontare Ray Sugar Robinson: ci voleva coraggio. Jake La Motta ne aveva da vendere, ma non bastò.

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    Il sesto, e ultimo, incontro fra Jake il Toro del Bronx, che si portava perfino a letto la cintura di campione mondiale dei medi, così raccontava Vikki, la seconda moglie, e Sugar l' artista, il diavolo nero campione del mondo dei welter, passò alla storia dello sport come un massacro. Lo paragonarono a quello di 22 anni prima, nel famoso garage sulla Clark street di Chicago: là vennero impallinati sette uomini.

     

    Qui, sulla West Madison Street, non molto lontana dal garage, un mercoledì notte, Robinson scaricò mitragliate di uppercut e ganci su quell' uomo. I cassieri contarono 14.802 spettatori per un incasso di 180.619 dollari: lo spettacolo valse il prezzo del biglietto. Decine di milioni di americani davanti alla tv. «Nessuno ha mai messo al tappeto Jake La Motta. Figlio di puttana, non sarai tu a farlo», si ripeteva il Toro chiedendo aiuto alle gambe esili, un testone nero e ricciuto che Rocky Graziano definiva testa di pietra, un naso deformato, una faccia rossa di sangue colante.

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    Scrisse Al Buck, giornalista di fama del New York Post: «Sanguinante, livido e malridotto, il Toro del Bronx restò in piedi ma nessuno avrebbe mai più voluto vedere una tal macelleria». Del resto è boxe, allora come oggi.

     

    «Un rito manicheo dove regnano il bene e il male, il vincitore e il perdente» scrisse Albert Camus. Così questa vicenda. Sei puntate nelle quali Sugar vinse 5 volte e quest' ultima lo avrebbe incoronato come nessuno fino allora: possedere in contemporanea i mondiali dei welter e dei medi. Robinson era la tempesta calma, freddo, lucido, implacabile. L' unica sconfitta con il Toro avrebbe interrotto una imbattibilità di 40 incontri.

     

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    Poi la serie riprese per altri 9 anni: in 123 match Ray perse una volta e inflisse 78 ko agli avversari. L'ultima sfida con La Motta gli procurò qualche problema. Frankie Carbo, mister Grey, la mano di velluto della mafia americana, avrebbe gradito un ultimo trittico vinci-perdi-vinci con La Motta. Sugar picchiò duro, chiuse il conto e lasciò gli States per qualche tempo, andando a cercare danaro e avversari in Europa. Da nove anni Jake e Ray si scambiavano cazzotti, cominciarono nel 1942: Robinson aveva 22 anni, La Motta 21.

     

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    Ora ne avevano 9 in più. «Con Zucchero ho combattuto così tante volte, da meravigliarmi di non essere diventato diabetico». Jake aveva la battuta pronta. Così quando sconfisse Tiberio Mitri. «Eri un tal bel ragazzo, che non sapevo se con te dovevo boxare o ballare». Lo riempì di botte, ma gli accordi pre-match erano diversi. Sul ring del Chicago stadium, Robinson dimostrò quello che raccontava Dan Parker, giornalista del Mirror. «La più grande combinazione di cervello, bravura tecnica e muscoli che un pugile moderno abbia mai avuto».

     

    Soffrì nei primi round, tornò all' angolo con il naso sanguinante. Fu una battaglia di astuzia contro audacia, testa contro cuore, abilità contro coraggio. Dal 9° round Robinson cominciò un selvaggio martellamento, i guanti da 6 once facevano più male: sconciò la faccia e le forze dell' avversario. La Motta pagava il peso sbagliato, l' idea di bere del brandy prima del match per darsi coraggio. Gli ultimi 7 minuti furono una carneficina, Ray scagliò 56 colpi di fila, i fans urlarono di fermarsi.

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    Guardò l' arbitro, ma quello non interveniva. Il Toro stava in piedi aggrappandosi ai calzoncini dell' avversario, un occhio chiuso, l' altro con un torrente di sangue. «Quando l' arbitro si intromise fra noi, stavo in piedi solo perché avevo il braccio attorcigliato attorno alle corde». L' immagine del groggy che Robert De Niro interpretò in Toro scatenato, il film che riportò al mondo il ricordo della notte di San Valentino. «No, Ray, avevo troppo cuore e coraggio per essere il tuo San Valentino». Il match fu interrotto a 2 minuti e 13 secondi del 13° round.

     

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    Jake si lasciò cadere sullo sgabello: svenne. Al rientro nello spogliatoio gli diedero l' ossigeno. Robinson sorrise, calmo. Al 12° round il cartellino dell' arbitro Sikora diceva: 63-57. Quelli dei giudici: 65-55, 70-50. Il pubblico delirava per Sugar Ray. Ma quando Jake lasciò il ring intonò: «For he' s a jolly good fellow» («Perchè lui è un bravo ragazzo, perché lui è un bravo ragazzo...»). Un coro d' addio alla grande boxe. Robinson tirò avanti fino a 44 anni.

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