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    “QUANDO PELÉ SEPPE CHE RIVERA NON GIOCAVA, SI PREOCCUPÒ. SE QUESTI NON METTONO IN CAMPO IL PALLONE D'ORO, DISSE, SONO FORTI” – ROBERTO BONINSEGNA SULLA MITICA FINALE ITALIA-BRASILE DEL 1970: “FINO AL 70ESIMO RESTAMMO IN PARTITA. POI LA STANCHEZZA VENNE FUORI. INSIEME CON LA CONFUSIONE IN PANCHINA. MI RESTA IL RAMMARICO DI NON AVER VISTO IL DUELLO RIVERA-PELÉ. FOSSI STATO IO NEI PANNI DI GIANNI, NON SAREI ENTRATO PER GIOCARE SOLO SEI MINUTI. UN'UMILIAZIONE…” - VIDEO


     
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    Carlo Baroni per il “Corriere della Sera”

     

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    La prima volta che lo incrociò, Pelé era già O Rei, lui non ancora Bonimba. Tre anni dopo i loro due nomi lampeggiavano sul tabellone della finale della Coppa Rimet. Pelé e Boninsegna mai insieme eppure sempre dalla stessa parte: quella del bel calcio, del gol da farci una cornice intorno.

     

    La prima volta al Martelli di Mantova. Era una sera di giugno del '67. In quello stadio si era appena consumata la fine della Grande Inter. La papera di Giuliano Sarti, lo scudetto alla Juve. «Se il Mantova ha battuto i nerazzurri, è una squadra da temere» disse Pelé ai giornalisti. Finì 2-1 per il Santos e il fuoriclasse brasiliano segnò il primo gol. Le cronache dell'epoca raccontano che «Carburo» Negri, il portiere prestato ai lombardi dal Bologna per l'occasione, «neppure vide il pallone». Quel Santos giocava 120 partite all'anno, due a settimana.

     

    «Questo ritmo non logora i calciatori, anzi li irrobustisce» spiegava il loro medico Ermindo D'Alò, brasiliano di origine calabrese. Di sicuro rimpinguava le casse del club paulista. Un Pelé da portare in giro garantiva il tutto esaurito sempre. Come Buffalo Bill nei circhi un secolo prima. Ma il fuoriclasse non era solo marketing trent' anni prima. Anche per un'amichevole ci metteva faccia e gambe. «Non giocai quella partita (all'epoca militava nel Cagliari ndr ) - ricorda Boninsegna - ma ero allo stadio». Il match con il Santos era legato anche al fatto che il Mantova era chiamato «il piccolo Brasile». Quindi in fondo era quasi un derby. E i giornali diedero un buono spazio a quell'evento che portava il più grande calciatore da noi.

     

    Sempre in una sera (italiana) di giugno Boninsegna indossò maglietta e scarpini e sfidò una squadra che non sapeva buttare la palla in tribuna. Era il 1970. La finale dei Mondiali. L'Italia ci arrivava dopo 32 anni.

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    «Avevano cinque trequartisti - prosegue Bonimba -. Dal numero 7 all'11 c'era un concentrato di classe, eleganza e tecnica calcistica. Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé e Rivelino. Noi ne avevamo tre (Mazzola, De Sisti e Rivera) ma uno lo lasciammo in panchina Quando Pelé seppe che Rivera non giocava, si preoccupò. Se questi non mettono in campo il Pallone d'oro, disse, sono davvero forti».

     

    Com' era O Rei visto da vicino?

    «Lui dettava i tempi, accendeva la luce, proponeva e concludeva. In una squadra dove tutti facevano tutto e bene. Eppure fino al 70' restammo in partita. E Domenghini arrivò lì lì a portarci avanti. Poi la stanchezza venne fuori. La semifinale incredibile con la Germania si fece sentire. Insieme con la confusione in panchina. In porta giocava Albertosi, che fece il suo, niente da dire ma in panchina finì Zoff per tutto il Mondiale. Lui che era il titolare della squadra campione d'Europa, giusto per precisare. Mi resta il rammarico di non aver visto il duello Rivera-Pelé. Certo fossi stato io nei panni di Gianni, non sarei entrato per giocare solo sei minuti. Un'umiliazione. Rivera era troppo cortese».

     

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    Viene da pensare a cosa sarebbe stato avere un Pelé dalla stessa parte.

    «Con lui a regalarmi assist, qualche gol in più l'avrei segnato. Ma non posso lamentarmi: da Mazzola a Bettega ho sempre trovato chi esaltava le mie qualità. Certo con un Pelé...».

     

    Forse il più grande di sempre.

    «Ognuno è il più grande del suo tempo. I paragoni tra epoche lasciano il tempo che trovano».

     

    Negli occhi del grande bomber dell'Inter c'è ancora il balzo incredibile di Edson Arantes do Nascimento che non aveva bisogno di appoggiarsi sulle spalle rocciose di Burgnich. E l'aria rarefatta di Città del Messico era solo ossigeno di un'infinita fuga per la vittoria.

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