Sandra Riccio per "La Stampa"
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C'è il popolo dei rider che ogni giorno consegna pranzo e cena a domicilio e ci sono i tanti fattorini che a ogni ora della giornata corrono per le strade del nostro Paese per recapitare pacchi e acquisti vari.
Ormai tutti conoscono bene questo mondo di nuovi impieghi, tutti accomunati dal fatto di avere una app (e un algoritmo) come datore di lavoro. Il fenomeno è in forte espansione in tutto il mondo e «invade» continuamente nuovi ambiti lavorativi.
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Nel nostro Paese sta raggiungendo numeri non trascurabili. Un'indagine diffusa ieri da Inapp, l'Istituto Nazionale per l'Analisi delle Politiche Pubbliche, ha contato oltre 570 mila persone in Italia che lavorano per una piattaforma digitale.
Emerge che non si tratta di «lavoretti»: per l'80,3% dei casi si tratta di una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale mentre per circa la metà (48,1%, pari a 274 mila soggetti) è il lavoro principale.
Non solo rider
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Lo studio ha anche messo in evidenza che i rider e i fattorini rappresentano solo la metà di questo nuovo universo (con una quota rispettivamente del 36,2% e del 14%).
Il resto dei «platform workers» svolgono incarichi online che vanno dalle traduzioni, alla stesura di testi, fino alla programmazione di software, alla realizzazione di siti web e così via.
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Oltre il 31% di questi nuovi lavoratori non ha un contratto scritto e solo l'11% ha un contratto di lavoro dipendente. «Si tratta, dunque, di un lavoro povero, fragile. In altri termini, di una nuova precarietà digitale» spiega l'analisi che parla anche di rischio di «caporalato digitale».
La lente della Ue
L'indagine, che porta il nome di «Lavoro virtuale nel mondo reale: i dati dell'Indagine Inapp-Plus sui lavoratori delle piattaforme in Italia», ha coinvolto oltre 45mila intervistati e anticipa i propri dati a pochi giorni dalla presentazione della proposta di direttiva della Commissione europea per il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle piattaforme.
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Certo è che i miti della sharing economy non reggono più: le piattaforme digitali richiamano sempre più forme di lavoro rigidamente controllate (nei tempi e nei modi), pagate spesso a cottimo (50,4% dei casi) e il cui guadagno risulta fondamentale per chi lo esercita.
«L'adozione della direttiva sulle condizioni di lavoro nelle piattaforme proposta lo scorso 9 dicembre può rappresentare un importante punto di riferimento sovranazionale per regolamentare e tutelare il lavoro delle piattaforme - dice Sebastiano Fadda, presidente dell'Inapp -.
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In tale nuovo contesto fino a cinque milioni e mezzo di lavoratori digitali in Europa potrebbero essere riclassificati come lavoratori subordinati, usufruendo così di alcuni diritti fondamenti (tra cui salario minimo, orario di lavoro, sicurezza e salute sul lavoro, forme di assicurazione e protezione sociale) finora negati.
Queste garanzie consentirebbero non solo di bilanciare in maniera più equa l'interesse dei fruitori di tali servizi con il diritto a condizioni di lavoro dignitose, ma anche di assicurare condizioni concorrenziali più sane nei diversi mercati e una maggiore trasparenza fiscale.
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La tipologia dei lavori in piattaforma è molto variegata: è necessario intervenire soprattutto e prioritariamente là dove le condizioni lavorative sono più esposte al rischio di sfruttamento».
Schiavi dell'algoritmo
Il sistema più diffuso per la valutazione del lavoro svolto è quello legato al numero di impegni o incarichi portati a termine (59,2% dei casi) seguito dal giudizio dei clienti (42,1%).
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Questo conferma la centralità del sistema del cottimo orario nella valutazione effettuata dagli algoritmi sui lavoratori e nell'organizzazione produttiva della piattaforma e suggerisce come per molti lavoratori delle piattaforme non si tratti di lavoro autonomo, ma di lavoro dipendente.
A una valutazione negativa o a una mancata disponibilità nello svolgimento degli incarichi corrisponde in quattro casi su dieci un peggioramento del tipo di incarichi assegnati, con la riduzione nelle occasioni di lavoro più redditizie rispetto al complesso degli incarichi (40,7%).
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Inoltre, la valutazione negativa determina per il 4,3% dei lavoratori il mancato pagamento della prestazione svolta, fino ad arrivare nel 2,8% dei casi alla disconnessione forzata dalla piattaforma, una sorta di licenziamento occulto.