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    QUANTE NE HA VISTE IL QURINALE: PAPI, RE, PRESIDENTI E LA CIULATINA TRA MALIKA AYANE E CESARE CREMONINI  - DOPO CHE IL CANTANTE AVEVA RACCONTATO IL LORO INCONTRO (“DOPO AVER OMAGGIATO NAPOLITANO SGATTAIOLAMMO PER I CORRIDOI DEL PALAZZO. PER CONOSCERCI MEGLIO, CI NASCONDEMMO DIETRO A UNA TENDA”), MALIKA CONFERMA: “CI SIAMO CONOSCIUTI AL QUIRINALE... CON GLI UOMINI SONO STATA SEMPRE FORTUNATA” – "MI PIACEREBBE FARE LA SOUBRETTE: SONO UNA BATTUTISTA, ANCHE UN PO’ CAZZARA - UNA CARRIERA ALLA MANESKIN? NON SO SE MI REGGEREBBE IL FISICO" - VIDEO


     
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    Michela Proietti per corriere.it

     

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    «Mio padre caricava di bagagli la Volkswagen Golf, poi si partiva: da Milano al Marocco in auto, tutta la famiglia, un viaggio lungo cinque giorni. Sapevo che avrei dovuto dormire sui sedili posteriori dell’auto insieme a mia sorella maggiore: era un esercizio di fatica e pazienza, ma anche di grande fantasia. Il mondo scorreva veloce fuori dal finestrino e io cercavo di acchiapparlo». 

     

    Malika Ayane, 39 anni, milanese di prima generazione, figlia di padre marocchino e madre italiana, cantautrice, violoncellista e conduttrice, ricorda ancora quei viaggi da viale Ungheria, estrema periferia est di Milano, fino a Meknes. «All’epoca non esisteva la Ryanair della situazione e anche gli amici che andavano dai nonni in Puglia non facevano viaggi troppo diversi dai miei: azzardavo dei calcoli, se partivamo di mattina presto forse avremmo preso il traghetto della sera. Forse per questo oggi il regalo più bello che posso farmi è comperare un biglietto aereo».

     

    Malika Ayane, figlia di mamma milanese, Midi, e papà magrebino, Ahmed. Come si sono conosciuti?

    «Mia madre era una hippie e durante un viaggio in Marocco ha incontrato papà e si è innamorata di lui. Come darle torto, i magrebini sono uomini bellissimi. Per un po’ hanno vissuto a Meknes, mia sorella è nata lì. Con il mio arrivo hanno deciso di trasferirsi a Milano».

    Quartiere Morsenchio, estrema periferia milanese. Che tipo di Milano era?

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    «Era la Milano periferica tra la Trecca (il quartiere alveare di «case minime» costruite tra il 1934 e il 1937, ndr) e Ponte Lambro: un isolotto sprofondato nella nebbia. Anche oggi i tassisti, quando mi portano lì, si spaventano. Allora li rassicuro: non è pericoloso, è solo brutto».

    Frequenta ancora il quartiere?

    «Ci vado abbastanza spesso. Io ho cambiato zona, ma le persone che frequento sono le stessa di tutta una vita. Sono a mio agio alla Cascina Martesana bevendo birrette per terra e a un aperitivo al Four Seasons. Per la seconda cosa ci ho messo un po’: prima mi sentivo a disagio».

     

    Crescere in periferia cosa le ha insegnato?

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    «Che la povertà deve essere trattata con cura, in modo decoroso. Ero una bambina con parecchia fantasia che trasformava il campetto davanti casa nella foresta di Sherwood, ma nel mio quartiere la vita ti ripeteva ogni giorno che avevi meno possibilità degli altri: dipingere una facciata, sistemare un cortile è una cosa che si deve alle persone. Altrimenti rischi di imbruttire una fetta di popolazione, che alla città non fa neppure comodo sia imbruttita».

     

    Si sentiva più a casa in Marocco o in Italia?

    «Non appartenevo in fondo a nessuna realtà: in Italia ero la marocchina, in Marocco l’italiana. Ho passato una vita da aliena: fino a quando ho messo piede al Sud e ho pranzato con una famiglia meridionale. A Bari vecchia mancava solo la Medina, ma c’era tutto quello che faceva parte della mia storia familiare: l’accoglienza, la condivisione, il chiasso».

    Quando ha scoperto la sua voce?

    «Mi sono accorta che stavo bene quando cantavo: se ero triste riuscivo a trovare conforto, la musica aveva un potere terapeutico. A scuola mi facevano sempre cantare o leggere: già in prima elementare leggevo benissimo».

    Chi ha pronunciato la famosa frase: «Questa ragazza bisogna farla studiare»?

    «Io stessa. Ho partecipato a un open day della scuola media statale del Conservatorio di Milano, all’epoca in cui il direttore era Marcello Abbado. Quando sono tornata ho chiesto a mia mamma: “per favore fammi studiare in quella scuola e non in quella del quartiere”».

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    Da Viale Ungheria alla prima cerchia milanese. Che impatto è stato?

    «I miei compagni di classe erano figli di musicisti o ragazzi della Milano bene, ma che forse avevano molta meno voglia di me di studiare. Ero una della prime figlie di straniero che studiava lì, c’era un po’ di diffidenza, per via di quella catena alimentare del pregiudizio. Ma come dice mia zia: “ad un certo punto sono arrivati gli albanesi e noi magrebini siamo stati digeriti”».

    Meglio il talento o la fortuna?

    «Io avevo talento, ma la mia carriera è stata costellata di coincidenze: a 11 anni sono entrata nel Coro della Scala perché ho accompagnato una mia amica a un’audizione. Sono un po’ come Candido di Voltaire, una ventata di ottimismo in un contesto che non prometteva niente di buono. Tutto accompagnato da duro lavoro».

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    La tipica laboriosità lombarda?

    «In famiglia si è sempre lavorato parecchio. Mia mamma ha fatto per una vita la colf, poi è diventata una infermiera per malati di Alzheimer. La nonna era la segretaria del direttore della Standa negli anni ‘50: a casa mia la frase era “studia pure la musica, ma trovati un lavoro”».

    Il primo stipendio?

    «A 11 anni e mezzo ho avuto la prima busta paga dalla Scala. A quell’età già sapevo la differenza tra netto e lordo. Se a 25 anni non avessi pubblicato il mio primo disco, avrei cambiato strada».

    Dalla Scala a Sanremo. Nel mezzo?

    «Tantissime cose. Quando sono diventata grande per il coro di voci bianche sono andata a lavorare nella caffetteria della Scala, in un call center e come cameriera a Le Trottoir, un locale con musica dal vivo sui Navigli. Ero gasata: pensavo a quando sarei diventata una cantante famosa e avrei potuto dire in una intervista che avevo preso ordinazioni ai tavoli».

    Quando si è rifatta viva la fortuna?

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    «La cantante del locale era malata, il suo sostituto neppure sapeva le parole del brano. L’ho corretto e lui mi ha gridato: “e allora canta tu”. Ci ho guadagnato un contrattino. Subito dopo sono andata a cantare jingle pubblicitari e nel frattempo sono diventata mamma».

    La maternità a 20 anni.

    «Ho capito che dovevo impegnarmi ancora di più, perché avevo davanti due strade: essere uno di quei genitori che i figli compatiscono mentre ti spacchi la schiena oppure - sempre mentre ti spacchi la schiena - guardano con ammirazione. Mia figlia era con me mentre facevo la gavetta: ho firmato il contratto con la Sugar di Caterina Caselli dopo aver lasciato Mia all’asilo».

     

    Chi è il papà di sua figlia?

    «L’ho conosciuto nel locale dove lavoravo. Lui faceva il deejay. Siamo stati insieme un po’. Mi sono anche sposata con un altro uomo».

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    Ha cresciuto sua figlia da sola?

    «Il papà è stato presente, ma il tema della conciliazione mi è stato fatto notare, in chiave decisamente maschilista. Ho macinato chilometri in autostrada di notte per tornare da mia figlia: se lo fa un collega è un super papà, se lo fa una donna è scontato. E a un uomo non vengono fatte domande del tipo “ma come fai ad essere in tour per 6 settimane con tua figlia a casa”»?

    Già, ma come ha fatto?

    «Mi sono assentata solo per cose per cui valeva la pena. Avere un figlio significa anche crescerlo, preparare tre pasti sani al giorno. La maternità mi ha salvata da parecchia vita superficiale. Tutti sanno che nei 15 giorni d’estate con Mia, non esisto per nessuno».

     

    La prima volta a Sanremo.

    «Duettavo con Gino Paoli, che aveva delle splendide scarpe di razza, mentre io indossavo un paio delle zeppe sottili come la lama di un pattino. Temevo di cadere».

    Cantava Come Foglie.

    «Il brano di Giuliano Sangiorgi. L’aveva scritto dopo che i Negramaro avevano chiuso il disco, lo teneva da parte per qualcosa di speciale».

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    Un commento che ricorda?

    «Prima di me si era esibita Katy Perry, uno show pazzesco. I commentatori continuavano a lamentarsi che in Italia nessun artista era capace di inchiodare così la platea. Ma quando ho cominciato a cantare si sono ammutoliti: la mia voce mi aveva salvata ancora una volta».

     

    Lei è una donna molto elegante.

    «Mi fa strano quando lo dicono, sono cresciuta riciclando gli abiti dei cugini. Da ragazza non esistevano H&M o Asos e in fondo eravamo tutti vestiti peggio: c’era Fiorucci ma non potevo permettermelo. Allora andavo nei negozi di usato e facevo sistemare tutto dalla sartina sotto casa. A volte eccedo. A X-Factor indossavo un abito con frange, paillettes e maniche a prosciutto, ma avevo lo stesso un dubbio: “farà poco scena?”».

    I capelli biondi?

    «Ho avuto un raptus circa 10 anni fa: mi ammorbidisce molto, i capelli scuri fanno venire fuori il Calimero che c’è in me».

    Un biondo da Lady Gaga o da sciura?

    «Lady Gaga neppure mi piaceva, le sciure invece le adoro. Non so se le quarantenni di oggi saranno le sciure di domani, se ne hanno il temperamento. I pranzi con Ornella Vanoni, Chiara Boni e Stella Pende sono uno di quei rari momenti in cui mi sento una discepola».

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    Quale è il suo hobby?

    «Arredare case, mi piacciono i mercatini».

    Che regalo ha fatto ai suoi con i guadagni?

    «Ho chiesto a mia mamma di smettere di lavorare, ma lei vuole continuare. Vizio tutti, per me i soldi servono per i biglietti aerei e svaligiare Saint Laurent».

     

    È molto gelosa della sua vita privata?

    «Più che altro non la trovo interessante. Do buca agli amici per andare al supermercato».

    Non è riuscita a nascondere la relazione con Cesare Cremonini .

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    «Ci siamo conosciuti al Quirinale. È il più bravo di tutti e gli voglio un bene pazzesco. Ma con gli uomini sono stata sempre fortunata».

    Cosa vorrebbe fare da grande?

    «La soubrette. Vorrei riportare valore in un mestiere che è stato svilito e non è per nulla “vile”. Sono una battutista, anche un po’ cazzara».

    Non sogna una carriera alla Maneskin?

    «Non so se mi reggerebbe il fisico. Mi piace andare al chiringuito dei Navigli , la mia migliore amica lavora in una agenzia di viaggi. Non riesco a immaginare una carriera così rumorosa».

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