Alessandra Dal Monte e Angela Frenda per il ''Corriere della Sera''
DANIEL PATTERSON
«Quanti chef credete che siano depressi? Almeno il 95 per cento». Daniel Patterson l' ha messa giù così. Un pugno nello stomaco. Come tutto il suo intervento, fatto l' anno scorso al Mad Symposium di Copenaghen, il grande ritrovo organizzato dall' ex «first chef of the world» René Redzepi (tra i primi ad aver denunciato come lo stress in cucina renda violenti). Ma quella del cuoco di San Francisco, titolare del bistellato «Coi», è stata l' inaspettata confessione pubblica di un malessere di solito tenuto nascosto. Per paura delle conseguenze.
Perché la depressione, per gli uomini soprattutto, rimane un grande tabù.
Un segno di debolezza, dunque difficile da assimilare alle caratteristiche maschili. E per questo spesso non chiedono aiuto.
Ciò, ha spiegato Patterson, vale ancora di più per gli uomini chef: «Pensiamo: cosa succederà se lo ammetto? La gente smetterà di venire nei miei ristoranti? Beh, io me ne son fregato, non l' ho detto a nessuno che avrei scritto questo discorso. E sono qui, a raccontarvi la mia storia. Improvvisamente mi sono sentito giù. In un baratro. Come non avessi sangue nelle vene. Ogni cosa richiedeva uno sforzo enorme. E un giorno ho scoperto che la mia creatività era interrotta, non riuscivo più nemmeno a creare un piatto. È stato allora che ho capito che era il momento di rivolgermi a un dottore».
Alain Ducasse
Eppure, si dice che cucinare renda felici. Basta guardare la faccia paciosa del cuoco dei cuochi, Paul Bocuse. Il sorriso soddisfatto dello chef-imprenditore Alain Ducasse. O Fulvio Pierangelini, che quando «è finita la magia» ha deciso di chiudere il suo «Gambero Rosso» (praticamente all' apice del successo) e cercar(si) altrove. Ma è Massimo Bottura, chef italiano più importante al mondo, a dare la chiave del suo equilibrio: «Avere un bambino speciale come il mio, che ha sempre bisogno, credo mi abbia salvato dallo stress insegnandomi a essere on sulle cose che contano davvero».
Tuttavia il disagio è confermato dai numeri. Una recente ricerca di Harvard e Stanford University ha inserito il mestiere di cuoco tra i dieci lavori più stressanti. Subito dopo poliziotti e chirurghi. Conferma che arriva anche da Patterson: «Tra di noi c' è un altissima percentuale di problemi mentali. La depressione cammina di pari passo con lo stress e con un ambiente di lavoro ostile: due cose che nei ristoranti abbondano.
MASSIMO BOTTURA
E per resistere al vuoto che si sente dentro, alla stanchezza, non si va da un medico perché significherebbe ammettere che non ce la facciamo, ma spesso ci si rifugia in alcol e droghe. La verità è che noi siamo un' industria nata per nutrire e prendersi cura della gente. Ma non siamo in grado di prenderci cura di noi stessi».
Tutta colpa, racconta sincero, della terribile atmosfera da «pressure cooking»: «Quando ho iniziato, le cucine erano ambienti che incoraggiavano comportamenti aberranti e abitudini di lavoro compulsive, considerate come un segno di dedizione professionale. Ma i miei sforzi venivano premiati, notte dopo notte, con ospiti felici. Così ho legato il mio concetto di felicità al successo. E ho scoperto che la cucina era un linguaggio non verbale che parlavo fluentemente, dove potevo comunicare senza affrontare le persone reali.
Convinto che la mitologia della creatività fosse legata alla follia e che se fossi diventato più "normale" avrei perso tutto».
asia e anthony eur
Ma di casi di depressione ed eccessi è costellata la carriera di molti chef. Si va da Anthony Bourdain, che si è raccontato bene nel suo «Kitchen Confidential», a Marco Pierre White, bello e dannato, il più giovane chef ad aver ricevuto 3 stelle Michelin. Per non parlare dei suicidi. Bernard Loiseau, Benoit Violier e infine il giovanissimo Beniamino Nespor, per citarne alcuni.
Cuochi che decidono di farla finita. Per investimenti finanziari andati a male o recensioni che li declassano. Un «male di vivere» che ha colto anche chef meno rinomati in tempi recenti. Prendiamo Joseph Cerniglia, ex «allievo» di Gordon Ramsay. Si sentì dire proprio da Ramsay nel reality americano «Kitchen Nightmares» nel 2011: «Il tuo ristorante finirà nel fiume Hudson».
Nel 2013 a finire nell' Hudson, morendo, fu invece Cerniglia, pare travolto dai debiti.
marco pierre white
Per contrastare la situazione si stanno mobilitando le associazioni di categoria. Il presidente dei cuochi professionali del Regno Unito, Carmelo Carnevale, ha lanciato i corsi di formazione per insegnare agli chef a controllare tensione e stress. Ha spiegato a Io Donna :
«Siamo in trincea per 16 ore al giorno, dobbiamo comandare una brigata, ma anche affrontare il pubblico. La tensione è altissima e sono molti i colleghi che ricorrono all' alcol o alle pasticche per resistere allo stress. Ci interessa riuscire a migliorare la capacità di relazione dei cuochi, che spesso sfogano in famiglia le loro ansie e paure.
L' idea è quella di impegnarci sul benessere psicologico per far sì che una volta ai fornelli possano rendere al meglio in serenità».
marco pierre white
In questo senso va anche il progetto «Chefs with issues», creato da Kat Kinsman, food editor alla Cnn. Colpita da depressione, ha cominciato a parlarne con gli chef che seguiva per lavoro, e così ha scoperto il buco nero di questo mondo. Allora ha fondato un' associazione no profit che ha come scopo quello di aiutarli concretamente.
Stessa finalità del ristorante «El Celler de Can Roca», 3 stelle Michelin, che ha da poco inserito il sostegno di uno psicologo per la sua brigata: Imma Puig viene tutte le settimane per parlare con i dipendenti e disinnescare la tensione del lavoro «in un ambiente come la cucina che - racconta la dottoressa - ha una temperatura elevata e un sacco di persone che lavorano ad alta velocità, molto vicine l' una all' altra. E con un coltello in mano...».
el celler de can roca
Affrontare i problemi prima che diventino troppo grossi è la strategia che Ben Shewry, acclamato chef del ristorante australiano «Attica», a Melbourne, ha imparato sulla sua pelle. Otto anni fa una depressione che fino all' ultimo non ha voluto ammettere lo ha quasi portato a mollare tutto:
«Stavo finalmente ottenendo i riconoscimenti che sognavo da anni dopo un periodo di superlavoro, 100 ore alla settimana. A un certo punto sono crollato. Ero terrorizzato all' idea che il mio ristorante potesse non piacere più. Mi sentivo triste, bloccato. Quasi non mi alzavo dal letto. Poi ho capito che stavo perdendo non solo me stesso, ma anche la mia famiglia. Allora ho preso in mano la situazione: ho ridotto le ore in cucina, ho cominciato ad allenare la squadra di basket di mio figlio e ho lanciato una specie di "Attica Anonymous", una riunione quotidiana di 15 minuti con la brigata in cui ognuno doveva dire che cosa non funzionava. All' inizio è stato strano, ma è servito. Ha cambiato il clima al ristorante e anche il cibo. A detta di tutti, in meglio» .
JOAN ROCA EL CELLER DE CAN ROCA