Corinna De Cesare per www.corriere.it
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Numeri sulle vendite, a circa una settimana dall’inizio dei saldi, ancora non ce ne sono. Quel che è certo è che per le strade nessuno ha visto riversarsi le folle degli anni ‘90, quando le troupe Rai riprendevano la gente in coda davanti ai negozi prima ancora che aprissero la saracinesca e si aspettava pazienti, genitori e figli, per prender parte a quel rito stagionale (e trasversale).
Perché tutti, benestanti o meno, ricchi e poveri, partecipavamo ai saldi di fine stagione: erano le nostre «vendite straordinarie» e già nell’uso di quella parola, se ne registrava tutta la loro esclusività. Oggi non è più così e basta dare un’occhiata ai negozi semivuoti delle grandi città in questi giorni. Ed entrandoci, in questi negozi, è anche abbastanza chiaro che i saldi, così come sono concepiti, forse non servono più.
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Perché? Sgombriamo il campo dai luoghi comuni: l’ecommerce, Amazon e Internet a cui spesso si assegna il ruolo dell’antagonista, hanno in questa storia un ruolo marginale rispetto a quello che si pensa. C’entra piuttosto un sistema che anno dopo anno, non solo non si è evoluto ma in quel poco che è cambiato, è cambiato in peggio.
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La riforma del titolo V della Costituzione italiana del 2001, ad esempio, ha dato diversi poteri alle Regioni, ma come sottolinea un interessante studio dell’Istituto Bruno Leoni, ha anche consegnato loro quasi interamente la materia della legislazione in fatto di commercio. Con il risultato che ancora oggi, nel 2019, abbiamo differenze regionali sull’avvio e sulle regole dei saldi mentre basta andare in qualsiasi Outlet, in qualsiasi giorno dell’anno, per comprare al 50%. Non solo. Le vendite private, dedicate ai clienti fidelizzati che vengono avvisati con sms e cartoline, azzerano qualsiasi vantaggio per tutti gli altri clienti che quando vanno in negozio il primo giorno di saldi, si trovano con taglie e merce già dimezzata. C’è poi il capitolo «Non in saldo» con sempre più merce di stagione, persino i costumi, esclusa da qualsiasi sconto. Con il risultato che l’attesa e l’interesse del consumatore passa ad altro, tipo gli Amazon Prime Day, annunciati per il 15 e il 16 luglio.
È venuto a mancare inoltre, con il tempo, quel rapporto di fiducia tra negoziante e cliente, come spiega Giampaolo Nuvolati, direttore del dipartimento di sociologia dell’Università Bicocca: «Un tempo avevamo un rapporto diretto con il territorio e con il negoziante. Oggi non è più così, il consumo è molto più distribuito nelle occasioni della vita — precisa — e la concorrenza è estremamente aumentata. È aumentata la mobilità delle persone che quindi si spostano e vanno negli outlet anche se già negli anni novanta c’erano i centri commerciali e cominciavano a essere messe in crisi le normali forme di commercio. Tutto ciò ha sicuramente messo in crisi i soggetti tradizionali, gli esercenti, ma anche i consumatori: c’è meno fidelizzazione, più volatilità, che è la cifra della nostra epoca».
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E così già negli scorsi saldi invernali, il calo dell’interesse degli italiani è stato sensibile: il 48% ne ha approfittato ma ha speso in media appena 118 euro a persona, una cifra ben al di sotto delle attese. Ora vedremo come andranno i sempre più deserti saldi estivi.
«Siamo in una fase in cui le offerte, le promozioni e il modo di rapportarsi ai consumatori è continuo, non c’è più la sacralità del saldo, il momento della convenienza — aggiunge Antonella Carù, docente di marketing della Sda Bocconi, School of Management — si articola in tante occasioni meno rilevanti, meno totalitari. E anche la convenienza e la dimensione ludica dello shopping si sono diluite lungo tutto l’anno. I consumatori sono sempre più competenti e si muovono con grande perizia tra online e offline — precisa Carù — e di questo gli esercenti dovrebbero tenerne conto. L’errore più grande è continuare a fare quello che si faceva in passato».
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