Federico Ercole per everyeye.it
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Carcer City: una delle peggiori città mai immaginate, buia e desolante come Gotham senza le sue slanciate architetture gotiche, e soprattutto priva di cavalieri oscuri a vegliare sugli innocenti tra le strade.
Carcer City è un insieme allucinato di ghetti metropolitani estrapolati dal cinema più notturno di Walter Hill o John Carpenter, un contenitore di discariche labirintiche ed edifici abbandonati che divengono territori di una giungla urbana, abitati da bande di folli predatori umani.
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Tuttavia questa città infame, con le sue gang di orridi energumeni mascherati e i poliziotti corrotti, che si nutrono come parassiti delle sue viscere nere, è anche "vera" in una maniera inquietante, riflesso non troppo deformato del lato oscuro di ogni metropoli del presente.
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È Carcer City, città della tenebra e antitesi della Città del Sole di Tommaso Campanella, il luogo ideale per ambientarvi uno dei più violenti ed eccessivi videogame mai realizzati, ovvero Manhunt, la caccia all'uomo di Rockstar North, un capolavoro discusso e discutibile, quasi dimenticato nello splendore milionario di tanti altri successi clamorosi delle stelle del rock videoludico.
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La città infame
Uscito nel 2003, Manhunt fu odiato e amato come accade per ogni opera che tenda a sconvolgere l'utente, imponendo una visione sgradevole ed estrema. Ma la sua terribile grandezza resta ancora oggi unica, quasi impossibile da pensare al giorno d'oggi, dove sembra imperare una sorta di censura orientata a stritolare la libera espressione in nome del politicamente corretto.
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Manhunt non vuole accaparrarsi la simpatia di nessuno, nemmeno quella di un giocatore più sadico, perché è un gioco violento contro i violenti, che ci obbliga ad uccidere trasformandoci in veri mostri.
Nelle sue iperboli "gore" più spettacolari trasmette nel fruitore un costante sentimento di ribrezzo, risultando sempre sgradevole, una spietata e perentoria condanna della violenza che è quasi una terapia d'urto elettronica, non dissimile a quella subita da Alex in Arancia Meccanica.
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La lentezza di Manhunt è esagerata, talvolta punitiva, soprattutto nelle fasi iniziali, durante le quali non si è ancora interiorizzata la sua ritmica ludica; ma presto, mentre la difficoltà aumenta, le ambientazioni si complicano e i nemici aumentano, l'opera si rivela come uno stupefacente motore d'ansia, uno dei più radicali giochi "stealth" mai programmati, una micidiale lotta per la sopravvivenza che ci atterra e ci fa rialzare ancora una volta solo per abbatterci con un altro pugno nello stomaco.
Per quanto triviale, uccidere in Manhunt diventa un'attività liberatoria, tanto sono orripilanti i cattivi che lo popolano: li disprezziamo e li temiamo, e non ci fanno mai pena. D'altronde, nei panni di James Earl Cash, criminale salvato clandestinamente dal braccio della morte per partecipare suo malgrado allo snuff-movie di un regista pazzo e geniale, noi stessi ci facciamo un poco schifo da soli. Poiché siamo carnefici, infami in una città infame.
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Eppure, dobbiamo vivere a tutti i costi, recitare il nostro ruolo in un documentario sull'atrocità: infine, uccisione dopo uccisione, ci rendiamo conto che, tra tanto squallore, stiamo vivendo un'avventura epica che premia l'astuzia e la pazienza, proponendo un racconto esteso e sofisticato dove attrazione e repulsione sono dosati con un'abilità registica tale da trasformare l'obbrobrio in un canone estetico.
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Rockstar sfida la nostra depravazione di giocatori e violenta la nostra etica, rendendoci burattini controllati da uno psicopatico. Non siamo "stranieri in terra straniera" all'interno di Manhunt: siamo a casa, killer virtuali di milioni di pixel antropomorfi. È probabilmente un caso, ma si tratta comunque di una corrispondenza affascinante, che il titolo sia Manhunt, come il film omonimo di Fritz Lang del 1941, conosciuto in Italia come Duello Mortale.
Ad un certo punto, nella pellicola del regista tedesco, vediamo un'immagine di repertorio con Adolf Hitler (probabilmente sulla terrazza del suo Nido dell'Aquila) filtrata dal mirino del cecchino che lo deve eliminare. In quel momento siamo noi spettatori i potenziali assassini, siamo noi stessi a provare il desiderio di uccidere il mostro più disgustoso, al costo di diventare dei mostri come lui. Assassini dell'assassino.
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Scrive Alessandra Contin, come sempre illuminante: "L'utente deve giocare, che pensi è un orpello non strettamente necessario". Con Manhunt si può cedere alla brutalità senza fermarsi a riflettere, immergendosi nella sua grafica intrisa di sangue in maniera dissennata, quasi gaudente. Ma se si inizia a "pensare", allora Manhunt diventa un gioco molto più profondo di quello che appare in superficie.
Il cinema dell'orrore
Manhunt è soprattutto un videogame sul cinema e i suoi autori, un manuale teorico sullo sguardo e il potere che esercita l'occhio del regista sullo spettatore. Oltre la sua forma truculenta c'è la raffinatezza di una scrittura stratificata e simbolica, come in tanti capolavori considerati di serie B, mai espliciti né diretti, all'apparenza elementari, se ci si arresta sul loro strato superficiale.
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La guerriglia contro l'idiozia va combattuta così, in modalità "stealth" e quindi poco palese. D'altronde Manhunt è scritto da Christian Cantamessa, il bravo sceneggiatore di Red Dead Redemption, che nel gioco qui trattato è anche "lead level designer", attività che spiega la straordinaria coincidenza tra il racconto e lo spazio di gioco.
Durante tutto lo svolgimento siamo osservati, non da un Grande Fratello qualsiasi ma da un regista di talento, un uomo ossessionato dal cinema e dalle sue infinite possibilità, soprattutto le peggiori (delle quali oggi usufruiscono per lo più la televisione e YouTube), ossia quando lo spettacolo diviene speculazione sulla sofferenza altrui, materiale visivo per coinvolgere un pubblico senza alcuna empatia.
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Lo snuff movie prodotto dagli efferati omicidi che commettiamo durante il gioco è una "visione" non così distante da tante immagini di pornografia del dolore che vediamo sui telegiornali o sui social media.
L'azione che produce il giocatore è costantemente inquadrata, e le gratificazioni ricevute dal giocatore (utili al potenziamento) dipendono dalla sua abilità nell'eseguire omicidi sempre più violenti. Una pratica piuttosto difficile peraltro, perché l'esecuzione al suo massimo livello di spettacolarità sanguinaria richiede un'attesa più lunga e prevede rischi maggiori.
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Con Manhunt l'orrore è sempre al centro della scena, è il motore di tutto il gioco. La regia è spietata, il suo occhio mai spento è il "villain" definitivo, quello di un uomo ossessionato dalla verità dell'immagine. In questa lotta tra una cinepresa che tutto inquadra, registra e monta, edificando un orrendo Frankestein di sequenze di morte, e noi che le recitiamo attraverso le azioni del protagonista, c'è la risoluzione traumatica del dissidio tra cinema e gaming come forme di espressioni e di arte.
Perché in Manhunt il videogame, con la sua libertà d'azione, lotta contro la magnifica "tirannia" del cinema, che ci ingabbia per sempre nella grana delle sue immagini. Nel fotogramma di una pellicola siamo fantasmi, mentre nel frame estrapolato da un gioco siamo burattini che si illudono di essere burattinai.