trump gabinetto cinese
Angelo Aquaro per 'la Repubblica'
L'importanza di chiamarsi "Chuan Pu": chi gliel'avrebbe mai detto a Donald Trump, appunto "Chuan Pu" nella traslitterazione del suo nome qui, che la prima battaglia da combattere con la Cina sarebbe stata quella per cancellare il suo nome dai gabinetti? No, non siamo ancora a questo tipo di proteste, anzi il miliardario qui in Cina gode, al di là delle schermaglie di governo, di una popolarità ben superiore a quella degli altri big americani, Hillary Clinton in coda.
Il problema è che tra i suoi fan non c'è il signor Zhong Jiye da Shenzhen, titolare della Shenzhen Trump, la rinomata fabbrica che con il nome del presidente eletto, si premura di farci sapere lui stesso attraverso il New York Times, realizza gabinetti "che riscaldano e risciacquano il posteriore".
shenzhen trump
Ora, anche qui, due pesi due misure, e non parliamo certo di tazze: quando anni fa un altro imprenditore cinese volle battezzare "George W. Bush" i suoi pannolini, il governo impedì la mossa sostenendo il negativo "impatto sociale nel registrare il nome di un leader come marchio". E perché i pannolini di Bush allora no e i gabinetti di Trump ora sì? E qui ci si inoltra in quella giungla di norme che (non) regolano la proprietà intellettuale e quella dei marchi quaggiù.
Per carità, sforzi da gigante sono stati fatti, anche per impedire quella proliferazione dei falsi, o quantomeno dei verosimili, contro cui oggi si scaglia anche Jack Ma, il patron di Alibaba preoccupato della pubblicità negativa che l'invasione dei fake ha sul suo bazar digitale e globale.
trump gabinetto cinese
Prendete il caso appunto del president-elect: a suo nome sono registrati in Cina la bellezza di 53 marchi e soltanto 21 sono quelli che gli appartengono realmente. Gli altri sono stati "occupati" da quelli che tecnicamente si chiamano appunto "gli squatter dei marchi": che invece degli appartamenti, occupano cioè i "trademark", con la differenza che in questo caso lo fanno anche se non sono vuoti.
Ecco, già il fatto che ci siano 21 marchi regolarmente registrati dallo stesso Trump è una notizia: pubblicamente il miliardario minaccia di far la guerra, privatamente con la Cina cerca di farci affari. E non è la prima volta: le prime richieste di registrazione risalgono agli inizi degli anni 2000, praticamente appena Pechino aveva fatto ingresso nell'Organizzazione mondiale del commercio, nel 2001, grazie soprattutto al pressing di un certo Bill Clinton.
trump gabinetto
Come orientarsi dunque in questo labirinto di vero e di falso, di @realDonalTrump, come il presidente eletto si firma del resto su Twitter, e semplici impostori? La giungla normativa gioca brutti scherzi perfino ai capoccia di qui. Per esempio l'altro giorno il Quotidiano del Popolo ha esultato: "Donald Trump ha vinto le presidenziali Usa ma ha perso due volte, negli ultimi cinque, la battaglia per il suo marchio in Cina". E che marchio. Qui si tratterebbe della "firma" su costruzioni e immobiliare, cioè del cuore dell'impero: finito dunque ora nelle mani dei cinesi? Sbagliato.
Anche al Quotidiano del Popolo, che qui non dovrebbe avere rivali nell'accesso alle informazioni che contano, alla fine si sono persi nella telenovela del "marchio Trump numero 5743720". Perché è vero che tale Dong Wei ha vinto sentenza e appello, come riportato dal megafono comunista, ma il miliardario è poi riuscito a far invalidare la decisione da un'altra corte ancora, come riportato successivamente dal Wall Street Journal. È notizia di questi giorni. Ed è l'ennesima prova di che razza di combattente il Dragone si trova adesso a Washington.
trump tower
Poi, per carità, i cinesi magari riusciranno ad averla vinta dove la battaglia è ancora aperta: carte da poker, racchette da tennis, perfino esplosivi e, ci mancherebbe, condom. Tutti prodotti marchiati Trump. Oltre, appunto, alla sfida ancora da giocare sulle toilet.