Luigi Ferrarella per il “Corriere della sera”
«Identificatelo!», ordinò a un carabiniere in Procura il giovane e arrembante pm, indispettito perché l'operaio per tre volte timidamente gli spiegava di non poter spostare una spina all'altra parete senza l'ok del datore di lavoro. L'indomani quel pm si sentì convocare da Francesco Saverio Borrelli: «Ora chiedigli scusa».
DI PIETRO - COLOMBO - FRANCESCO SAVERIO BORRELLI
Questo stampo, lo stesso che da giudice nel 1978 lo spinse in Tribunale con la gamba fratturata appena ingessata pur di non far saltare un processo ai terroristi rossi di Prima Linea, era frutto dello strano mix di un napoletano teutonico, secondo l'arguta definizione data di lui dal maestro Riccardo Muti a Marcella Andreoli nel 1998: napoletano per nascita (12 aprile 1930) ma fiorentino per studi, milanese per lavoro, tedesco e anzi wagneriano per folgorazione giovanile negli anni della sognata carriera pianistica, francese per lingua familiar-borghese durante l'infanzia in una famiglia di quattro generazioni di magistrati: che, dall'ottocentesco suo omonimo procuratore del Re nelle Puglie, scendono giù per i rami del padre Manlio, fino al 1959 presidente della Corte d'appello milanese e amico di Montanelli, e arrivano (passando appunto per Francesco Saverio) al figlio Andrea, giudice civile in Tribunale a Milano.
FRANCESCO SAVERIO BORRELLI E ANTONIO DI PIETRO
Curioso destino essere sempre associato alla più grande inchiesta penale di sempre, e agli anni da procuratore (1988-1999) e procuratore generale (fino al 2002), quando in realtà aveva la forma mentale del civilista e si sentiva molto più giudice: un giudice marchiato - nella costante inclinazione a soppesare nel dubbio le ragioni altrui - dal trauma di dover decidere la prima condanna di un rapinatore a 10 anni di carcere in una sentenza «che non riuscivo a leggere, l' idea mi terrorizzava intimamente».
Decisivo nel cogliere nel 1992 la necessità di affiancare all' energia di Antonio Di Pietro due colleghi (Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo) dalle caratteristiche complementari, lo è poi via via nel far loro da scudo agli attacchi provenienti prima da Craxi e poi da Berlusconi.
ANTONIO DI PIETRO SAVERIO BORRELLI GERARDO DAMBROSIO
Anche per questo, quando apprende che Di Pietro - dimessosi a sorpresa il 6 dicembre 1994 dopo l'invito a comparire a Berlusconi del 21 novembre ma prima dell' interrogatorio il 13 dicembre - non solo aveva taciuto al pool di essere sotto scacco di Previti per un prestito dall'assicuratore Gorrini, ma aveva poi anche lasciato intendere ai vari politici che lo corteggiavano di essere stato quasi costretto dai colleghi a indagare Berlusconi, Borrelli gliene chiede conto.
Prima in una burrascosa telefonata («non venire più in Procura perché ti faccio buttar giù dalle scale se non fai immediatamente il tuo dovere» di smentire), e in seguito nel 1996 testimoniando in Tribunale a Brescia sulla «defezione» di Di Pietro a dispetto dell' assicurazione ai colleghi «poi in aula ci vado io e quello lo sfascio».
BORRELLI E DI PIETRO mani resize
Combattuto durante Mani Pulite tra la convinzione che «noi magistrati dobbiamo evitare che alle nostre iniziative vengano attribuite valenze che non devono avere», e però la pari persuasione che «la gente deve sapere che c' è un coefficiente di successo nella nostra attività legata al consenso», negli ultimi anni la sua vena malinconica aveva preso il sopravvento.
Non tanto per il timore nel 2011 di «dover chiedere scusa per Mani Pulite» nel dubbio che «non fosse valsa la pena di buttare all' aria il mondo per cascare poi in quello attuale», quanto per una più radicale rivisitazione del senso dell' agire giudiziario. Come se lo scavasse il tremendo paradosso di suo padre: «Un giudice dovrebbe, impegnandovi l' intera sua esistenza, studiare una causa sola. E, dopo 30 anni, concluderla con una dichiarazione di incompetenza».
BORRELLI DI pietro