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Anna Bolena fu regina consorte d’Inghilterra e d’Irlanda per appena tre anni (tra il 1533 e il 1536) come seconda moglie di re Enrico VIII, alla ricerca di un erede per il trono. Ebbero una figlia insieme, ma il monarca voleva a tutti un costi un maschio, e non riuscendo ad avere altri figli con lei cercò il modo di liberarsene per sposare Jane Seymour, con cui intanto aveva iniziato una relazione.
Enrico VIII non andò per il sottile: ottenne che Anna Bolena fosse accusata di alto tradimento e condannata a morte per decapitazione: una delle esecuzioni più famose della storia.
Enrico VIII si sarebbe sposato altre quattro volte, ma sarebbe stata comunque Elisabetta, la figlia avuta con Anna Bolena, a diventare regina, una delle più importanti in tutta la storia del regno d’Inghilterra e d’Irlanda.
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Nei secoli, la storia di Anna Bolena si arricchì di numerose leggende, nate per l’interesse intorno al personaggio e per la brutta fine che aveva fatto. Secondo una di queste, subito dopo la decapitazione Anna Bolena avrebbe mosso ancora per qualche istante gli occhi e mostrato di essere parzialmente cosciente. Storie analoghe furono poi raccontate sul conto di altri personaggi condannati a morte, rinfocolando il mito secondo cui per qualche tempo dopo la decapitazione la testa rimarrebbe vitale e in grado di percepire ciò che le accade intorno.
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Come spiega Adam Taylor della Lancaster University, le scarse conoscenze sull’anatomia umana e le caratteristiche del cervello nel Cinquecento contribuirono alla nascita di miti e leggende intorno alle morti per decapitazione. La prima domanda da farsi è infatti se e per quanto possa “sopravvivere” una testa dopo essere stata separata dal suo organismo.
Sappiamo che il cervello ha bisogno di grandi quantità di energia e di ossigeno, portati dalla circolazione sanguigna, per sopravvivere. In media, un cervello umano consuma il 20 per cento di tutto l’ossigeno di cui necessita l’organismo. La decapitazione implica la repentina recisione di tutti i vasi sanguigni che trasportano il sangue, e quindi l’ossigeno, verso la testa. Certo, nella scatola cranica resta un po’ di sangue ancora ossigenato, ma non dura a lungo considerato quanto se ne consuma per l’attività cerebrale.
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La mancanza di ossigeno al cervello porta alla perdita di coscienza dopo circa 10 secondi, mentre i primi danni consistenti e irreversibili ai neuroni (le principali cellule del cervello) avvengono dopo 3-6 minuti di privazione dell’ossigeno.
Sulla base di queste evidenze, è difficile immaginare che una testa mantenga qualche forma di coscienza dopo la decapitazione. La maggior parte dei medici concorda sul fatto che la privazione quasi istantanea di ossigeno, la rapida perdita di sangue e del liquido cerebrospinale causino un trauma irreversibile al cervello in 2-3 secondi. La perdita di coscienza avviene quindi quasi istantaneamente durante la separazione della testa dal resto del corpo.
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Nei test di laboratorio effettuati sui ratti, per studiare tecniche di eutanasia più umane, i ricercatori hanno provato a misurare il tempo che intercorreva tra la decapitazione degli animali e la loro perdita di coscienza, utilizzando un elettroencefalogramma. I test hanno portato alla conclusione che tutto avvenisse in massimo 4 secondi dalla decapitazione, in linea con ricerche simili eseguite in precedenza su altri roditori. L’attività elettrica nel cervello, dicono queste ricerche, prosegue poi ancora per almeno una decina di secondi, ma senza il mantenimento della coscienza. Non è chiaro se in quel periodo di tempo si percepisca o meno dolore o qualche altra sensazione.
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Nelle cronache delle decapitazioni, come quella di Anna Bolena, si narra spesso di movimenti della bocca e degli occhi delle persone decapitate. In molti casi quei movimenti, per quanto repentini e non ripetuti, sono indicati come la dimostrazione che la testa sopravviva dopo la separazione dal corpo. È opinione diffusa che movimenti delle palpebre o delle labbra siano riconducibili a spasmi muscolari indotti dal sistema nervoso in modo riflesso, senza alcun controllo consapevole da parte del condannato.
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Recenti ricerche hanno mostrato come in alcune circostanze ci sia ancora attività nel cervello dopo che il cuore ha smesso di battere, che prosegue per qualche minuto prima di arrestarsi. A oggi non sappiamo di preciso che cosa implichi quell’attività e se abbia qualche collegamento con il mantenimento della coscienza, cosa su cui i medici sono comunque scettici. Il recente risultato sui cervelli di alcuni maiali, “riportati in vita” dopo la morte, dimostra quanto ci sia ancora da lavorare per scoprire funzionamento e caratteristiche del cervello.
La decapitazione influisce naturalmente anche sul resto del corpo. La recisione della testa porta non solo a una grande e repentina emorragia, ma anche all’interruzione di tutti gli impulsi nervosi gestiti dal sistema nervoso centrale. Alcuni tessuti continuano a vivere, ma nel complesso l’intero organismo perde le proprie funzionalità. Mike fece eccezione, riuscendo a vivere per 18 mesi senza testa: non era però un essere umano, ma un pollo.
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La storia di Mike
Il 10 settembre del 1945 il padrone di Mike, Lloyd Olsen di Fruita (Colorado), uscì nell’aia per procurarsi un pollo per la cena. Scelse Mike, un pollo di cinque mesi e mezzo, e lo decapitò con un’ascia. Il colpo non fu però preciso: la testa fu in buona parte rimossa, ma Olsen mancò la vena giugulare e buona parte del tronco encefalico dell’animale (la parte dell’encefalo che controlla numerose funzioni vitali).
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Mike sopravvisse alla decapitazione e Olsen decise di tenerlo, nutrendolo quotidianamente con acqua e latte attraverso un contagocce, per far cadere le sostanze nutrienti direttamente nell’esofago dell’animale, non avendo più becco e buona parte della testa. Saltuariamente Olsen dava da mangiare al suo pollo decapitato anche piccoli granelli di mais e vermi.
Mike divenne presto un fenomeno da baraccone, molto famoso in tutti gli Stati Uniti e con articoli su alcune delle riviste più importanti dell’epoca, come Time e Life. Si stima che fruttasse circa 4.500 dollari al mese a Olsen, pari a 50mila dollari dei giorni nostri.
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Nel marzo del 1947, Mike morì per soffocamento in un motel in uno dei suoi tour in giro per gli Stati Uniti accompagnato da Lloyd Olsen e da sua moglie. Erano passati 18 mesi dalla sua decapitazione.
Altri animali riescono a sopravvivere alla perdita della testa. Gli scarafaggi, per esempio, continuano a muoversi e essere attivi anche dopo averla persa e muoiono solo in un secondo momento, di solito di fame. Lo stesso avviene per alcune specie di serpenti e per le tartarughe, per via del loro metabolismo più lento e del modo in cui è fatto il loro sistema nervoso, che mantiene una certa autonomia anche quando perde una connessione diretta con il cervello.
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La decapitazione oggi
Negli ultimi anni la decapitazione è stata spesso associata alle attività dello Stato Islamico (o ISIS), che in più casi ha diffuso online video di esecuzioni di prigionieri e sequestrati uccisi seguendo questo metodo.
La decapitazione è stata impiegata per dar seguito alle condanne a morte in molti paesi nel corso della storia, mentre oggi è ritenuto un metodo barbaro e inumano. L’unico paese a prevedere ancora l’esecuzione dei condannati a morte tramite decapitazione è l’Arabia Saudita. Le esecuzioni vengono effettuate con una spada, negli ultimi anni ne sono state eseguite in media 150 all’anno.
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