Alberto Mattioli per “La Stampa”
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La morte dell’opera è una delle profezie più clamorosamente sbagliate del Novecento. Anzi, si può dire che pochi periodi siano stati più fecondi di capolavori; capolavorissimo sono i “Dialogues des Carmélites” di Francis Poulenc, prima nel ’57 alla Scala (in italiano come si usava allora, e caso forse più unico che raro di un’opera che debutta non nell’originale ma in traduzione) poi entrato stabilmente in repertorio, anche se in Italia meno che altrove. Giustissimo quindi dedicargli un’inaugurazione di stagione. L’Opera di Roma poi di “prime” non banali è diventata specialista fin dalle memorabili “Bassaridi” di Henze. La lezione è che non bisogna mai sottovalutare il pubblico, che infatti risponde: alla terza recita il teatro non era stracolmo ma nemmeno vuoto, e ha risposto con giusto entusiasmo.
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Il punto, al solito, non è tanto cosa si fa, ma come. Questi “Dialogues” sono un capolavoro anche nell’esecuzione che ha un nome e un cognome: Michele Mariotti. Il nuovo direttore musicale dell’Opera firma infatti una direzione sensazionale, paradossalmente perché all’insegna della sobrietà. Nel suo programmatico rifiuto di ogni avanguardismo, la musica di Poulenc si vuole semplice, di quella semplicità che si ottiene soltanto con il massimo della raffinatezza. L’errore che si fa spesso, per non dire sempre, è caricarla di effetti, di eccedere in sottolineature. Mariotti lavora invece per sottrazione, concentrandosi sulle dinamiche, da pianissimi impalpabili a schianti che hanno la stessa asciutta e formidabile perentorietà delle frustate, e sui colori, differenziandoli per ognuna delle protagoniste e delle situazioni.
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L’opera ne esce in tutta la sua nuda e struggente bellezza, con una tensione, un ritmo e una continuità che trovano i loro climax nei due finali (secondo e terzo atto sono unificati): la morte della superiora e il “Salve Regina” che diventa sempre più flebile man mano che le suore che lo intonano salgono alla ghigliottina, certo, pagina infallibile sempre, che però mai o quasi si è sentita con questa forza tremenda perché spoglia. Orchestra meravigliosa, trasfigurata.
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Nella compagnia spiccano due autentiche fuoriclasse. Una, manco a dirlo, è Anna Caterina Antonacci, Madame de Croissy, la superiora che muore facendo a Dio, e facendoci, l’eterna domanda: “Que suis-je à cette heure, moi misérable, pour m’inquiéter de Lui? Qu’il s’inquiète donc d’abord de moi!”. Antonacci sarà anche arrivata a uno stadio della carriera in cui magari parla più che cantare: ma lo fa con un’intensità, una forza, un’eleganza (e un francese) semplicemente memorabili, grandiosi. L’altra è Corinne Winters, una Blanche perfetta nel raccontare la graduale maturazione non di un personaggio, ma di un’anima.
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Ekaterina Gubanova, Mère Marie, non è forse altrettanto sottile, ma che voce bellissima e, anche lei, che “presenza” scenica e musicale. Impeccabili pure Ewa Vesin, Madame Lidoine, ed Emöke Barath, Soeur Costance, forse con un registro acuto un po’ al limite. In un’opera tutta a femminile, fanno bene anche i rari maschietti. Bogdan Volkov, lo Chevalier de la Force, ha un timbro di rara bellezza (avesse solo un po’ più di volume…), Jean-François Lapointe, suo padre, una gran classe, e spiccano anche Krystian Adam, Roberto Accurso e Alessio Verna. Insomma, dal punto di vista musicale non si potrebbe desiderare di meglio.
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Lo spettacolo di Emma Dante è assai bello. È una lettura tutta simbolica, atemporale, senza alcun riferimento ai fatti, pur storici, che l’opera racconta, l’assassinio di sedici carmelitane da parte dei giacobini nel 1794 (come spesso accade in queste storie struggenti di sacrifici umani senza ragione al culto della Ragione, l’atroce ironia della sorte è che furono uccise poco prima che la stessa sorte toccasse a Robespierre). Dante ha due meriti. Uno, non piccolo, di essere riuscita a superarsi, in un momento della carriera in cui rischiava di diventare manierista, vedi i “Vêpres” di Palermo, cioè di essere la Dante che (ri)fà la Dante.
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Qui il grottesco è contenuto e quando c’è funziona, come nel balletto del primo quadro, che in effetti è puro Satie, idem il ghigliottinamento senza ghigliottina, le monache chiuse nelle stesse cornici dorate che avevano ospitato altrettanti ritratti femminili di David, cioè di loro stesse prima dei voti, su cui cade come una lama una tendina-sudario bianca. Commozione palpabile e voluta, ma non facilona.
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L’altro, ancora maggiore, di aver reso con piccoli tocchi ma grandemente efficaci il clima di complicità femminile, di sorellanza della vita conventuale prima della tragedia: non vorrei passasse per sessismo al contrario, ma poteva riuscirci così solo una donna. Quanto al valore religioso dello spettacolo, chi non ha la grazia di essere toccato dalla Grazia meglio non ci si avventuri: rimando alle considerazioni molto profonde di Pierachille Dolfini su “Avvenire”. Posso solo dire che, a olocausto compiuto, mi sovvenuto Chateaubriand: “J’ai pleuré et j’ai cru” (forse).
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E tuttavia sono quei casi in cui il commentatore deve rendere atto allo spettacolo di essere riuscito pur non essendo quello che avrebbe voluto. Certo, a Poulenc (e a Bernanos dalla cui pièce l’opera è tratta) interessava più interrogarsi sui temi della Fede che su quelli politici. E tuttavia i “Dialogues” sono anche un’opera politica. La critica delle degenerazioni criminali della Rivoluzione è netta e ricorda quel che insegnava Solgenitsin: è nel terrore giacobino, nei sacrifici umani offerti senza ragione alla Dea Ragione, che stanno le origini dei totalitarismi spaventosi, di destra e di sinistra, del Novecento insanguinato.
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La ghigliottina è la madre del gulag e del lager. L’opera di Poulenc non è affatto clericale o reazionaria come pure si pensò. Ma è il manifesto di un cattolicesimo francese che dalla Rivoluzione in poi si è sempre pensato come una minoranza ideologicamente aliena al resto della Nazione. Poulenc visse gran parte della vita, prima e dopo la conversione del 1935, nella Terza Repubblica massonica e anticlericale: fra gli “intello” parigini che frequentava, era molto più scandaloso il suo cattolicesimo della sua omosessualità.
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Addio “fille ainée de l’Église”: in Francia, i cattolici erano e forse sono degli stranieri in patria. Tutto questo è molto politicamente scorretto, quindi anche le più belle produzioni che si sono viste negli ultimi decenni (Carsen alla Scala, Py agli Champs-Elysées, questa) soprassiedono: legittimo, ma non esaustivo.
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