XI JINPING JOE BIDEN
Joe Biden e Xi Jinping sono tornati a parlarsi. Dopo sette mesi dall'ultima telefonata, i due presidenti hanno tenuto ieri un nuovo colloquio, in cui hanno sostenuto la necessità di una cooperazione tra Washington e Pechino. «Il presidente Biden ha sottolineato l'interesse duraturo degli Stati Uniti per la pace, la stabilità e la prosperità nell'Indo-Pacifico e nel mondo e i due leader hanno discusso sulla responsabilità di entrambe le nazioni di garantire che la concorrenza non si trasformi in conflitto», ha reso noto la Casa Bianca, mentre - da parte cinese - è stato evidenziato che Xi ha criticato la politica americana per aver creato delle difficoltà nel rapporto tra Washington e Pechino.
XI JINPING JOE BIDEN
Salta sicuramente all'occhio che, nei resoconti della telefonata, siano emerse delle informazioni piuttosto vaghe. Il che è un po' strano per un colloquio che, secondo quanto riferito, sarebbe durato ben 90 minuti. È tra l'altro difficile non immaginare che la telefonata abbia del tutto ignorato la crisi afgana, specialmente in vista del G20 previsto per il mese prossimo.
Vale la pena sottolineare che Pechino ha cercato di presentare il colloquio come un sintomo della debolezza americana. Un articolo pubblicato ieri dal Global Times (organo del Partito comunista cinese) era infatti significativamente intitolato: «La seconda telefonata tra Xi e Biden è un segno positivo in mezzo ai rapporti tesi; segnala la crescente ansia degli Stati Uniti di cercare l'aiuto della Cina». Non solo: sempre il Global Times, l'altro ieri, aveva pubblicato un altro articolo, in cui si riportava che, secondo il portavoce dei talebani Suhail Shaheen, i miliziani dell'Etim (organizzazione nemica di Pechino, dai pregressi legami con i «barbuti») avrebbero lasciato l'Afghanistan e che il neonato governo di Kabul sarebbe pronto ad aprirsi a nuove figure.
talebani
Insomma, sembrerebbe che la Repubblica popolare voglia convincere (o autoconvincersi) di trovarsi in una posizione di forza. Peccato per lei che la situazione è forse un tantino più complicata.
Cominciamo col dire che i talebani non hanno mai brillato per affidabilità. E non sarà un caso che anche l'Iran stia iniziando a nutrire preoccupazioni per la composizione del nuovo governo di Kabul (quell'Iran che, ricordiamolo, soprattutto negli scorsi mesi si è notevolmente avvicinato a Pechino).
talebani celebrano vittoria 10
Partecipando mercoledì a un meeting con le controparti di Cina, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Pakistan, il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, ha dichiarato: «L'esperienza ha dimostrato che un governo non inclusivo non fa nulla per aiutare la stabilità, la pace e il progresso in Afghanistan, quindi la nostra aspettativa dai ministri degli esteri è di annunciare la necessità della formazione di un governo inclusivo con una voce unificata».
Ricordiamo che, nonostante una storica inimicizia, il comune avversario statunitense avesse portato negli anni le Guardie della rivoluzione islamica a sostenere i talebani. Le parole di Amirabdollahian mostrano adesso però che Teheran non è troppo fiduciosa nei confronti dei «barbuti»: in particolare, Al Jazeera ha lasciato intendere che gli iraniani temono l'assenza di rappresentanti sciiti nel governo.
Hibatullah Akhundzada
In tutto questo, uno storico alleato dell'Iran come la Russia aveva annunciato che non avrebbe preso parte alla cerimonia di inaugurazione del nuovo esecutivo afgano. Una cerimonia che tuttavia, secondo quanto riferito ieri dall'agenzia di stampa russa Tass, sarebbe stata annullata.
Un ulteriore problema è poi quello dell'Etim. Il sospetto è infatti che le promesse dei talebani su questa spinosa questione possano rivelarsi scritte sulla sabbia. Un rischio sottolineato, giusto ieri, dal South China Morning Post, che ha riferito come la suddetta garanzia di Suhail Shaheen risulta sostanzialmente impossibile da verificare. Sempre ieri, The Diplomat sottolineava che, con la vecchia guardia dei talebani al potere, sarà molto difficile per Pechino rafforzare la propria influenza politica ed economica sul Paese.
Mullah Akhund
Inoltre, che la Repubblica popolare tema la minaccia jihadista è testimoniato anche dal portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, che ha accusato ieri l'intervento americano in Afghanistan di aver comportato un «significativo aumento delle organizzazioni terroristiche». In un simile quadro, i cinesi avrebbero disperato bisogno di un Afghanistan stabile.
Uno scenario, questo, tutt' altro che certo. Il Paese è attraversato da proteste, tanto che ieri le Nazioni Unite sono intervenute per condannare le violente repressioni messe in atto dai talebani. Inoltre, sempre l'Onu ha sottolineato che l'Afghanistan rischia seriamente una crisi umanitaria sia in termini economici che sanitari.
MULLAH AKHUND 2
Insomma, i cinesi devono affrontare non pochi problemi. E non è affatto detto che gli americani abbiano realmente tutta questa voglia di cooperare con loro sul dossier afgano. D'altronde, per Washington vedere Pechino impelagata nelle tortuosità afgane è un'occasione allettante. Indubbiamente rischiosa. Ma senz'altro allettante.