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    QUESTO NON È UN GIOCO: E’ PAC MAN! - FINALMENTE SI COMINCIA A RICONOSCERE UN’IMPORTANZA STORICA ALL’ARTE PIÙ BISTRATTATA E AMATA DEL SECOLO: I VIDEOGAMES - NASCE A ROMA “VIGAMUS”, IL PRIMO MUSEO DEI VIDEOGIOCHI - PARTENDO DA PIETRE MILIARI COME SUPERMARIO FINO AD ARRIVARE AD “ASSASSIN’S CREED”, PASSANDO PER CAPOLAVORI COME “DOOM” E “TOMB RAIDER”…


     
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    Vittorio Macioce per "il Giornale"

    L' ingresso è lungo il la¬to di un mercato, al coperto, come tanti ce ne sono a Roma, con le cassette di frutta e verdura in un angolo e la gente che sciama con la busta della spesa e lo sguar¬do abbassato sullo scontrino. Questo è il mercato di via Saboti¬no, a due passi da piazza Mazzini, quartiere Prati. È qui che da qual¬che giorno c'è Vigamus, il primo museo del videogioco in Italia. A vederlo così, con i muri grigi, e il muso dell'alieno di Space Invaders in rosso sul cartellone capi¬sci che è lui.

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    È come ritrovarsi do¬po venti o trent'anni in una sala giochi, quelle di una volta, senza pretese, dove nei paesi e nelle cit¬tà ci si incontrava il pomeriggio, con le lire di metallo in tasca e la speranza di fare qualche partita o di puntare qualche ragazza. La sa¬la giochi come un micromondo, dove improvvisavi il tuo romanzo di formazione con il gusto retrò di infinite partite a biliardino e le fu¬ghe più o meno alienate verso un virtuale magari rozzo, ma che al¬lora sembrava il paese delle mera¬viglie.

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    Te li ricordi i professionisti di Pac-Man o di Tetris , di Super¬mario o Defender, con la sigaretta appesa al labbro, mai una smor¬fia, davanti a quel mobile nero dozzinale con video incorporato avevano lo stesso aplomb di un ra¬gioniere. Non c'era nulla in quel¬la stanza che poteva smuoverli. Non la musica, non le risse, non le risate e neppure il passo dondo¬lante di un Levi's 501 non ancora a vita bassa ma insalsicciato a do¬ve¬re che si scorgeva in retrospetti¬va.

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    Nulla. Il ragioniere stava lì con il solo insert coin di tre ore prima, monopolista della pagine dei re¬cord, dove firmava con il suo no¬me solo al primo posto e poi con vezzo da «non mi batterete mai» digitava anonimi AAAA o ABCE¬TRQ, quasi a dire che in certe cose o sei il primo o non sei nulla. Agli altri non restava che turnare in sfi¬de più umane a Hyper Olimpics, a Street Fighter o Kick Off .

    Vigamus come tutti i musei non ti fa rivivere quegli anni, ma ti fa risentire un po' di quella atmosfe¬ra, anche se nella sala bar manca la nebbia e l'odo¬re di sigarette e le zaffate di fumo. Le luci, però, sono le stesse. Si en¬tra e si scende, come in una cava e i telefonini perdono campo e co¬me un tempo nessuno ti può chia¬mare se non sei a casa. E allora, a casa, ci stavi poco.

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    Qui trovi la li¬nea darwiniana delle consolle e quasi piangi a toccare il Commo¬dore 64 e guardi con sorpresa il 16, quell'esperimento fallito che arrivò quasi clandestino sul mercato nel 1984. C'è naturalmente lo Spectrum e l'Amiga, ci sono tutti gli Atari, su uno schermo rimbal¬za la pallina di Pong, in quella sor¬ta di tennis da pallettari dove non si poteva andare a rete e l'unica possibilità era arrotare le palle e aspettare l'errore dell'avversa¬rio.

    C'è il sorriso giallo di Pac-Man, il primo videogame a lascia¬re il video per una carriera da ico¬na, con la faccia stampata sulle magliette, sui diari, sugli zaini del¬la scuola. C'è il baffuto idraulico italiano di nome Mario, che da at¬tore non protagonista in Donkey Kong diventa con la complicità dei suoi fratelli una stella globale. C'è il dischetto originale dove per la prima volta hanno riversato il programma di Doom, il primo «sparatutto» in first person shoo¬ter, dove tu guardi il mondo con gli occhi, e il mirino, del tuo personaggio. Non so se a qualcuno è mai interessata davvero la sto¬ria.

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    Sei un marine spazia¬le deportato su Marte per aver di¬sobbedito all'ordine di sparare a civili disarmati. L'obiettivo come sempre fermare l'invasione dei demoni (o alieni) e ritornare sulla Terra. Come diceva uno degli svi¬luppatori di Doom, John Car¬mack: «La trama in un videogio¬co, è come la trama in un film por¬no. Ti aspetti che ci sia, ma in fon¬do non serve a niente». Non è ve¬ro e il futuro lo ha dimostrato. Ba¬sta pensare a Assassin's Creed . È altrettanto vero però che Doom era tornare a casa, magari dopo un esame all'università, e con il fu¬cile a pompa spappolare quei mo¬stri fottuti.

    Qualcuno purtroppo svalvolan¬do di testa ha confuso Marte con la realtà. Ma lo avrebbe fatto lo stesso anche senza Doom. Una cu¬riosità, invece. C'è una scena ne Il colore dei soldi dove Tom Cruise si presenta in una sala biliardo con una stecca personalizzata dentro una valigia. «Che cosa hai lì dentro?», chiedono. La risposta è Doom.

    Laggiù nell'angolo c'è final¬mente lei. Lara Henshingly Croft, sopracciglia ad arco, occhi legger¬mente a mandorla, bocca rossa a cuore, una certa somiglianza con Angelina Jolie e va bene una quar¬ta che il pullover azzurro non è mai riuscito a nascondere. Era il 1996 e sul pianeta virtuale arriva un vero sex simbol. È la prima. È la più famosa. Ma a te resta il debole per Jill Valentine di Resident Evil.

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    Stesso anno di nascita, ma meno amazzone, più fragile con tutti quei vampiri in giro e un po' più dolce. Verso la fine trovi il tuo gio¬co preferito Black& White di Peter Molyneux, prodotto nel 2001 dal¬la EA Games, la stessa di Fifa. Chi sei, che fai? Semplicemente una divinità in concorrenza con altri dei. Sei il demiurgo di un mondo popolato di tribù (giapponesi, ti¬betani, greci, aztechi, pellirosse, celti, scandinavi ed egizi). Ogni tua azione influenza il kharma dei tuoi fedeli. Quale è il diverti¬mento?

    Puoi scegliere se essere buono o cattivo. Tollerante o in¬transigente. Generoso o avido. La tua morale può basarsi su una so¬la regola o su una tavola della leg¬ge. Ma in fondo sei soltanto un mercante di anime. Quando esci è buio. Qualcuno ti chiede se ha un senso un museo del videogame. La risposta po¬trebbe essere molto lunga. Qui ba¬sta rispondere con una doman¬da. Il cinema è arte? Allora lo sono anche i videogiochi. Game over.

     

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