Ugo Magri per la Stampa
sergio mattarella e mario draghi
Quando ieri mattina Mario Draghi è salito al Colle, molti hanno immaginato che fosse andato a ritirare le dimissioni o, viceversa, a confermarle irrevocabilmente.
Pochi hanno valutato una terza possibilità, quella poi rivelatasi esatta: che il premier non avesse affatto maturato una decisione definitiva sulle proprie intenzioni, e dunque nel salottino presidenziale (dopo una rapida relazione sulla sua visita in Algeria) si fosse limitato a illustrare le molte criticità o, se si preferisce, i molteplici pro e contro della scelta che lo attende. Insomma, è stata una interlocuzione interlocutoria, per riassumerla con un calembour.
sergio mattarella mario draghi
Intendiamoci: rispetto alla narrativa diffusa nei giorni scorsi anche da Palazzo Chigi, dove il premier veniva descritto orgogliosamente inflessibile e desideroso solo di voltare pagina, questa problematica disponibilità di Draghi a prendere tempo è stata accolta al Quirinale con relativo sollievo, quasi che potesse significare un passettino avanti, la disponibilità implicita a rimanere in sella qualora certe condizioni si dovessero verificare. Quali siano questo condizioni non rappresenta un mistero. Il premier giustamente esige che, nell'ultimo scorcio di legislatura, le forze di maggioranza si comportino con serietà e decoro. Il dibattito in Parlamento cui si sottoporrà stamane ne rappresenta ai suoi occhi la cartina al tornasole. Qualche leader s' illude di strappare delle concessioni a Draghi in cambio del via libera; in realtà è lui, il premier con la valigia in mano, che si aspetta risposte chiare da chi lo sostiene. Idealmente le stesse risposte si attendono altri protagonisti di questo passaggio storico: dal presidente ucraino Zelensky a quello russo Putin, per opposti motivi interessatissimi alla sorte del nostro governo.
mattarella draghi
Letteralmente il mondo ci guarda. Se queste risposte convincenti non dovessero arrivare (è una preoccupazione raccolta in alto loco) la discussione al Senato potrebbe essere interrotta dalle dimissioni definitive del premier senza nemmeno arrivare al voto conclusivo.
È l'esito peggiore, quello che indurrebbe il presidente della Repubblica a sciogliere immediatamente le Camere senza passare attraverso le solite consultazioni, limitandosi a sentire (come esige la Costituzione) i presidenti di Camera e Senato. In mancanza di intesa si voterebbe l'ultima domenica di settembre o al più tardi la prima di ottobre. Ma è anche lo scenario più probabile, specie dopo gli accadimenti di ieri, con la visita mattutina di Enrico Letta da Draghi che ha innescato verso l'ora di pranzo una rabbiosa reazione del centrodestra. Matteo Salvini, con Silvio Berlusconi a ruota, è ingolosito dalla prospettiva di andare al voto senza donare altro sangue a Giorgia Meloni; intende cogliere al balzo la palla della crisi provocata dai Cinque stelle per alzare drammaticamente la posta. Reclama un rimpasto di governo per allargare l'influenza della Lega e per far fuori due ministri a lui scomodi: la titolare dell'Interno, Luciana Lamorgese, e quello della Sanità, Roberto Speranza. Se questi sono i presupposti, si riflette al Quirinale, la possibilità di ritrovare un punto d'equilibrio, che già sarebbe un miracolo, diventa se possibile ancora più complicata. In serata lassù prevaleva un lucido realismo nell'attesa del "redde rationem" di stamane al Senato. La politica si sta incartando da sola e il tempo stringe.
il giuramento di mario draghi davanti a mattarella il giuramento di mario draghi davanti a mattarella mattarella e mario draghi al quirinale