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    SOLO I TIRANNI NON VENGONO RIMOSSI IN TEMPO DI GUERRA – SULLE DIMISSIONI DI BORIS JOHNSON, DOMENICO QUIRICO DEMOLISCE LA TESI RICATTATORIA DI CHI (ANCHE IN ITALIA) REPUTA INACCETTABILE UNA CRISI DI GOVERNO MENTRE IN EUROPA SI COMBATTE: “LE DEMOCRAZIE SOLIDE, ANCHE SE C'È LA GUERRA, NON HANNO PAURA DELLE CRISI. LE IMBOCCANO. RIFIUTANO LA PSICOLOGIA DELLA FORTEZZA ASSEDIATA, EPURANO CON IL VOTO GLI INCOMPETENTI E GLI ARRUFFAPOPOLI. SONO LE TIRANNIDI SEMMAI CHE INVOCANO LE UNANIMITÀ”  


     
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    dimissioni boris johnson 1 dimissioni boris johnson 1

    Domenico Quirico per “La Stampa”

     

    La frase è sempre quella, intimidatoria: come si fa a immaginare una crisi di governo mentre incombe la guerra? E allora tutti tacciono perché non è una idea soggetta a discussione ma un ricatto da scalare rischiando il precipizio. Ebbene la guerra c'è, eccome!

     

    Combattiamo da 130 e più giorni contro la Russia con tutto ciò che abbiamo, armi, economie, diplomazie, propaganda, cultura. E adesso c'è la prova che le democrazie solide, profonde, anche se c'è la guerra, non hanno paura delle crisi. Le imboccano. Si mettono in discussione, si dividono, rifiutano la psicologia della fortezza assediata, epurano con il voto gli incompetenti e gli arruffapopoli. Sono le tirannidi semmai che invocano le unanimità, gli ammucchiamenti, le «union sacrée», i «da oggi conosco soltanto tedeschi».

     

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    Le tirannidi cadono perché perdono le guerre, le democrazie le vincono perché non mettono tra parentesi il restare se stesse. Perché in democrazia «il più bel mestiere del mondo» è a tempo determinato. È il mestiere del tiranno che non conosce la pensione.

     

    Dalla Gran Bretagna, dal parlamento britannico che è uno dei luoghi fisici in cui è nata la virtù dell'Occidente, ci è arrivato un monumentale insegnamento disarcionando in giuste forme il renitente premier Johnson. Il leader dei conservatori aveva puntato tutto sulla guerra: non vorrete per caso cacciarmi mentre guido le quaranta democrazie contro il nuovo Hitler del ventunesimo secolo? 

     

    È come se aveste osato mettere in minoranza Churchill nell'infuriare della battaglia di Inghilterra, con i tedeschi che apparecchiavano lo sbarco sulle bianche scogliere di Dover. E immaginava così che tutta la zavorra di scandali, peccatoni e i peccatucci, bugie spudorate che trascinavano a fondo il suo governo di populista scombinato sarebbero finite nel dimenticatoio. C'è la guerra...

     

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    Lui che voleva indossare i panni del nuovo Churchill ha dimenticato che nel suo Paese sopravvive una qualità psicologica diversa da quella delle ideologie più o meno estremiste, un sentimento della indipendenza, l'ironia verso chi comanda, la constatazione che nasce da una esperienza secolare che non vale sempre la pena di obbedire a chi comanda, chiunque sia, la sfiducia accorta sull'utilità di sottoporsi ai grandi principi unitari. 

     

    Grandi uomini e grandi princìpi hanno subito, qui più che altrove, il trattamento salutare della empietà storica, la sublime giustizia della irriverenza. Nei momenti cruciali si cercano non uomini senza qualità che ambiscano a entrare nella Storia ma che vogliano rimanere nella realtà; e la realtà è un mondo senza sogni, dove il passato conta poco e l'avvenire è qualcosa di oscuro.

     

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    Per questo il Regno Unito è un Paese vitale anche se destinato inesorabilmente a perdere sempre più di importanza, a ridursi a una minuscola nazione europea. L'impero è finito ma anche i rimorsi di averlo avuto. E questo è segno di saggezza. È così finito che non suscita neppur più quegli insulsi conati di contrizione dell'Europa colonialista che si sente per sempre colpevole verso il terzo mondo.

     

    Johnson era, mediocremente, uno degli innumerevoli populisti blasonati, rampolli di élite scalcagnate che dai tempi di Catilina scelgono di incanaglirsi e corteggiare le disprezzatissime plebi ramazzando voti nelle bettole e nei pub, promettendo mari e monti, per afferrare il potere. 

     

    boris johnson volodymyr zelensky a kiev boris johnson volodymyr zelensky a kiev

    Nulla di originale, per carità, uno dei tanti che pensa che la politica sia una perenne sceneggiatura, un po' opera buffa e un po' (finta) tragedia, da percorrere avanti e indietro a seconda del copione con i coturni del comico o con gli schinieri del tragico. Politicanti che disprezzano i riti della democrazia proprio facendole false ed esagerate riverenze.

     

    Ma con lo scoppio della guerra in Ucraina questo penoso commediante era diventato un pericolo per la pace universale. Perché lui la guerra grossa la voleva, la cavalcava, la aizzava, la sognava lunga, interminabilmente provvidenziale. Con grande disinvoltura morale ci fornicava interpretandola come l'occasione perfetta per sospendere ogni guaio che lo inbastigliava.

     

    Il premier britannico è diventato, ravvivandola di continui ardori, il «pasionario» della terza guerra mondiale alla Russia. Il perseguitato Zelensky lui lo ha aggiogato al suo carro, ripagandolo con tonnellate di missili e munizioni. Difficile dire chi tra i due usava l'altro. 

     

    discorso di boris johnson al parlamento ucraino discorso di boris johnson al parlamento ucraino

    Le passeggiate insieme nelle vie di Kiev, svuotate dal coprifuoco e dalla angoscia dei missili, acciaccando lo spazio a larghe e pesanti bordate, gesticolando come un pulcinella tragico, frenetico esagerato tonitruante, erano la sua dichiarazione di guerra. 

     

    Ovviamente a telecamere accese. Suoi fin dall'inizio gli sgambetti ad ogni ipotesi di trattativa considerata tradimento da pantofolai, suoi i missili che hanno affondato l'ammiraglia russa nel Mar Nero e suoi forse anche i militari che li hanno lanciati. Johnson era il direttore che pretendeva non ci fossero stecche nell'orchestra guerriera. 

     

    BORIS JOHNSON E ZELENSKY A KIEV BORIS JOHNSON E ZELENSKY A KIEV

    Si preparava e preparava il pubblico già alla fase successiva del conflitto: il ritorno dei soldati inglesi sul Continente come nel 1940 per rimettere le cose a posto. 

     

    Attenzione: non era il rodato allineamento della Gran Bretagna al carro americano, che i governi britannici dopo il 1956, quando è calato il sipario imperiale, hanno accettato come l'unico stratagemma per vivacchiare all'ombra dell'imperialismo vittorioso. Teorema a cui sono stati affezionati i leader laburisti come Blair ancor più dei conservatori. Per Johnson l'Ucraina era faccenda di politica interna, il salvacondotto per distrarre l'attenzione da ogni magagna che intralciava la sua carriera di leader. 

     

    BORIS JOHNSON E ZELENSKY A KIEV BORIS JOHNSON E ZELENSKY A KIEV

    Boris il guerriero: così si immaginava dopo esser stato Boris che aveva sbertucciato i burocrati di Bruxelles. Ma l'effetto Brexit tra inflazione e Covid ormai era appassito da tempo. Rivendere i migranti al Ruanda era virtuosismo che poteva incantare solo i razzisti. Usare la guerra in Ucraina lo rendeva pericoloso. 

     

    Ma c'è in Gran Bretagna un istinto, pochissimo teorizzato, di fare quello che occorre al momento giusto. E questo era il momento giusto. Ancor più rimarchevole che non sia stato cacciato perché la guerra andava male (e va male) o perché il Paese si è scoperto in maggioranza pacifista. 

     

    ZELENSKY E BORIS JOHNSON A KIEV ZELENSKY E BORIS JOHNSON A KIEV

    È stato cacciato perché i suoi stessi compagni di partito lo hanno considerato indegno, a causa dell'andare a ribotta in periodo Covid, delle bugie evidenti, dei collaboratori impresentabili. E un indegno non può guidare un Paese in guerra.

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