Fulvia Caprara per ‘La Stampa'
Un film per prolungare un'esistenza agli sgoccioli, un film che non avrebbe dovuto finire mai, un film che, giorno dopo giorno, avvicinava Massimo Troisi alla sua fine. Dietro la macchina da presa, esattamente 20 anni fa, c'era il regista britannico del Postino, Michael Radford, classe 1946, nato a Nuova Delhi, residente a Londra. Davanti c'era l'artista amato allora come oggi, unico e irripetibile nelle battute entrate a far parte del linguaggio di ognuno e, soprattutto, nella filosofia di vita, quintessenza originale, imitata e citatissima, di una napoletanità introversa, schiva, malinconica.
Michael RadfordDi quel set, di quell'intesa, di quell'andare insieme, passo passo, incontro alla morte, Radford (che sarà protagonista, durante il prossimo «Bari International Film Festival» di un tributo a Troisi e di una lezione di cinema preceduta dalla proiezione del film) conserva un ricordo vivissimo e struggente: «Furono giorni tristi e insieme molto felici. Massimo stava morendo, ma il nostro rapporto, nato tempo prima, quando gli avevo chiesto se voleva recitare nel mio film Another time, another place, cresceva di ora in ora. Eravamo diventati amici. Io non parlavo italiano, lui non sapeva una parola di inglese, ma ci capivamo perfettamente».
Come era nata l'idea del «Postino»?
«Massimo non aveva voluto fare Another time, another place perchè le riprese erano ambientate in Scozia e mi disse che lì, per lui, faceva troppo freddo, però ci promettemmo, fin da allora, che avremmo fatto qualcos'altro insieme. Così un giorno lui mi propose questo squisito libro di uno scrittore cileno, Antonio Skarmeta, con un protagonista diciassettenne. Ci vedemmo a Roma e insieme decidemmo di trasformarlo in film cambiando praticamente tutto, tranne la storia d'amore con la ragazza e il rapporto del giovane con Neruda».
In che modo si svolse la lavorazione?
«Dopo tre giorni di riprese Massimo crollò e dovette andare via, però continuavamo a sentirci e lui mi chiedeva sempre qual era la mia impressione su quel poco che avevamo girato. Da quelle domande ho capito che voleva continuare a lavorare, così ci siamo messi d'accordo, Massimo avrebbe fatto il film girando un'ora al giorno, concentrandosi sui primi piani, mentre per il resto avremmo usato controfigure».
Insomma, riprese molto complicate.
«Sì, ma più pesante di tutto era la pena che avevamo nel cuore... ricordo che per la scena del matrimonio ho dovuto cambiare tante di quelle volte le date del piano di lavorazione, che alla fine l'ho fatta con sette sosia di sette attori principali. In certi momenti ero triste, anche disperato. Lo confessai a Massimo, e fu lui a consolarmi dicendomi che io avevo umanità, e che quella è uguale dappertutto e che a tutto il resto avremmo pensato noi, insieme».
Che cosa le ha lasciato «Il postino»?
«La memoria dell'essere stato accanto a una persona speciale. Il postino è rimasto impresso nella mia coscienza perché è il film coincide con la nascita del mio amore per l'Italia».
Perché, secondo lei, Troisi è rimasto così vivo nel ricordo della gente?
«Perché era un uomo speciale, portava su di sé la sofferenza del Mezzogiorno d'Italia, aveva una sensibilità particolare, incarnava l'idea di un popolo napoletano da sempre votato alla sofferenza».
Con il nostro Paese ha mantenuto comunque un legame. È vero che dirigerà la trasposizione cinematografica del libro di Marcello Sorgi «Le amanti del vulcano»?
«Sì, me l'avevano proposta e l'idea mi era subito piaciuta. Il libro racconta la storia dei rapporti tra Roberto Rossellini, Anna Magnani e Ingrid Bergman, un argomento molto divertente che mi avrebbe dato la possibilità di osservare un grande regista da una prospettiva nuova.
Però poi il progetto si è arenato, montare un film in Italia non è facile, anche se io sarei felicissimo di girare nel vostro Paese. Nel frattempo ho lavorato con Anna Pavignano, che scriveva tutti i film di Troisi e con cui mantengo un legame stretto, alla sceneggiatura di un film americano che uscirà in Italia, anche se non so ancora bene quando».
Di che cosa si tratta?
«Si chiama Elsa e Fred, i protagonisti sono Shirley McLaine e Christopher Plummer, racconta la vicenda di una signora in età, un po' stravagante, decisa a realizzare il suo sogno e cioè andare a Roma, alla Fontana di Trevi, e rivivere la sequenza della Dolce vita con Anita Ekberg e Marcello Mastroianni. Il bello è che ci riesce, trova un cavaliere di 83 anni e si regala quell'emozione».
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