Adriana Marmiroli per “La Stampa”
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Qualche volta tra tante repliche estive può capitare che arrivi in tv anche qualche gioiellino. È il caso della miniserie Nudes, approdata il 27 su Rai2, e poi in onda il 3 e il 10 agosto, dopo un'anteprima su RaiPlay.
Nudes tocca un tema delicato ma anche molto sottovalutato, il revenge porn, il «porno vendicativo» di chi diffonde sul web immagini intime di qualcuno che nulla ne sa, e certo se sapesse non vorrebbe. Le dimensioni della sua diffusione sfuggono, e invece è dilagante: i dati della Polizia Postale italiana parlano di circa due milioni di persone coinvolte nel solo 2021. In pochissimi lo denunciano, e come risultato anche la legislatura lo sottovaluta. Ne vediamo solo la punta quando qualche vita si spezza e arriva in cronaca nera.
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Colpisce soprattutto le donne, età media 27 anni (il che significa che molte sono le minorenni), e per tutte è come subire una specie di stupro digitale.
Ambientate nella normalità assoluta della provincia italiana, quelle di Nudes sono storie molto semplici, normali e quotidiane: qualunque, verrebbe da dire. Raccontano le vite spezzate da momenti di leggerezza, incoscienza e rabbia; l'umiliazione, vulnerabilità e solitudine delle vittime, ché la vergogna isola, anche da chi potrebbe aiutare. E dicono anche quanto sia facile entrare ma poi impossibile uscire dalla memoria eterna del web: ogni immagine, parola o notizia condanna all'immortalità, a essere per sempre (da qualche parte).
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Prodotto da Bim per Rai Fiction, è l'adattamento di un teen drama norvegese e mostra gli effetti di questo fenomeno su alcuni adolescenti. In tre blocchi autonomi, altrettanti giovanissimi - Vittorio, Sofia e Ada - vivono l'incubo di immagini rubate e postate su internet, divenute oggetto di battute crudeli nella vita reale e sui social prese di mira dagli odiatori in modo ancora più crudele, accanito e abietto.
Vittorio, in un momento di rabbia, filma e posta le immagini di una ex mentre fa sesso. Lo stesso accade a Sofia, inquadrata da un cellulare in un momento di intimità. Quanto a Ada, la più piccola, solo 14 anni, si fa convincere da un ragazzo conosciuto sul web a mandargli foto in topless: verrà contattata da un sedicente amico che le rivela che sono finite in rete me che lui la può aiutare: per soldi, naturalmente, o in cambio di altri scatti.
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«Il revenge porn può sconvolgere anche la vita più equilibrata - ha detto Fotinì Peluso, tra gli interpreti della miniserie forse la più nota per essere stata tra i protagonisti de La compagnia del cigno. - È un fatto inatteso che deflagra. Purtroppo se ne parla poco: occorrerebbe una apposita educazione civica, invece come tutto ciò che coinvolge la sfera sessuale viene evitato. Soprattutto a scuola».
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Lei dalla scuola è uscita da qualche anno ormai, ma ricorda: «Non c'è studente che non conosca qualcuno che c'è finito dentro. Il liceo è un luogo crudele. Ho visto girare foto e sentito commenti: i ragazzi se le scambiano come le figurine dei calciatori; le ragazze per curiosità.
Usare il telefonino per fare foto per la mia generazione è un diritto acquisito: riprendiamo quello che ci va. Ma spostare il peso della responsabilità di una foto dal carnefice alla vittima è assurdo, è come imputare uno stupro a una minigonna».
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Se quelli di Nudes sono casi di «ordinario» revenge porn, la miniserie L'uomo più odiato di internet, da pochi giorni in streaming su Netflix, ne racconta invece il business e lo sfruttamento, il macro fenomeno sociale e la cultura del disprezzo che ne è sottesa. L'uomo del titolo è Hunter Moore: da noi uno sconosciuto, ma negli Usa tra 2010 e 2012 godette di una certa notorietà in quanto cattivo ragazzo fondatore di un piccolo e remunerativo impero del revenge porn, la piattaforma IsAnyoneUp.com.
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Seguito da milioni di followers, veri e propri adepti di una specie di culto, godeva e si vantava di demolire le vite di perfetti sconosciuti. Un sociopatico. Poi incappò in una madre che voleva giustizia, Charlotte Laws. Volitiva ex attivista che sapeva come muoversi, riuscì a innescare la valanga che determinerà chiusura del sito e la condanna di Moore a 30 mesi. Documentato con dovizia di chat e testimonianze sofferte di alcune vittime, colpisce la brutalità gratuita e la misoginia che sta dietro a questa macchina del fango (inventore e followers), le parole sempre volte all'annientamento, e parallelamente l'umiliazione e la vergogna, il senso di impotenza e il disorientamento, il desiderio di scomparire per sempre delle vittime. Anche questo è femminicidio.
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