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    QUEL GENIO DI RENATO CAROSONE: "FACEVO SOLO CANZONETTE NON PENSAVO FOSSERO DESTINATE A DURARE" - FEGIZ: "CENTO ANNI FA NASCEVA UNO DEGLI ARTISTI PIÙ ECLETTICI DELLA CANZONE ITALIANA, CREATORE DI CONTAMINAZIONI FRA JAZZ, MUSICA AMERICANA, PARTENOPEA E L'ORIENTE" – ECCO COME NACQUE "TU VUO' FA' L'AMERICANO" - L'INEDITO PER I CENTO ANNI: UN BRANO, 'A SIGNORA, ISPIRATO A SHARON STONE ("ACCAVALLA E SCAVALLA.../ E I ME SENTO E MURI'" ) LIBRO+VIDEO


     
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    Mario Luzzatto Fegiz per il “Corriere della Sera”

     

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    Esattamente cent' anni fa nasceva a Napoli Renato Carosone, uno dei più grandi e originali artisti della canzone italiana, creatore di contaminazioni fra il jazz, la musica americana e partenopea e l' Oriente. I suoi classici, da Torero a Caravan petrol , da Tu vuò fa l' americano a Pianofortissimo , da Maruzzella a Pijate 'na pasticca testimoniano una modernità stilistica e una vocazione all' intrattenimento in qualche modo uniche.

     

    Carosone ebbe la fortuna di un padre che amava la musica e lo spinse a studiare, fino al diploma, su uno scassatissimo pianoforte francese. Poi una scrittura con una compagnia di varietà lo portò a Massaua, Addis Abeba, Asmara. La scalata al successo cominciò nel '49 quando formò un trio con Van Wood e l' esuberante batterista Gegè di Giacomo: debuttò nel '49 alla Shaker Club di Napoli, mentre nel '55 inaugurò la Bussola di Sergio Bernardini, alleandosi col paroliere Nisa (Nicola Salerno) che inventò dei testi in linea con l' ecletticità e lo humour di Carosone, qualità con cui incantava le platee.

     

    Torero fu tradotta in 12 lingue, la Loren e Clark Gable duettarono con Tu vuò fà l' americano ne La Baia di Napoli , la Magnani cantò Maruzzella e anche Scorsese utilizzò suoi brani in Main Street . Nel '59, al culmine del successo, annunciò il ritiro.

    «Ritengo che il mio genere sia ormai superato». Per i 15 anni seguenti solo piano e pittura, la sua segreta passione. Poi il ritorno.

     

    Carosone era un napoletano speciale che detestava l' acquerello partenopeo del quadrinomio cuore-amore-pizza-Vesuvio.

     

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    Pur cresciuto con molti grandi della canzone napoletana come Sergio Bruni e Murolo, rimase un outsider. Il 20 maggio 2001, dopo aver pranzato con la famiglia, si concesse un sonnellino. Dal quale non si svegliò più. Un addio in punta di piedi, con la stessa classe con cui aveva vissuto.

     

    I CENTO ANNI DI CAROSONE

    Estratto del libro Carosone 100-Autobiografia dell’Americano di Napoli scritto da Renato Carosone e Federico Vacalebre e pubblicato da il Messaggero

     

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    Nicola Salerno, alias Nisa, univa un grande mestiere e un'eccezionale velocità di versificazione a una pigrizia quasi proverbiale e a una vena ironica che covava sotto la cenere. Un giorno la Ricordi lo iscrisse con me a un concorso radiofonico, aspettandosi che noi due, senza esserci mai frequentati prima, sfornassimo tre canzoni per la kermesse in questione. Nicola venne al primo appuntamento con alcuni testi già scritti, uno dei quali mi folgorò letteralmente. Si trattava di Tu vuo' fa' l'americano.

     

    All'incontro era presente anche Mariano Rapetti, il padre di Giulio (poi noto come Mogol), direttore della Ricordi e autore di successo con lo pseudonimo di Calibi (un pezzo per tutti: Vecchio scarpone), che intuì subito che qualcosa di importante stava per vedere la luce. Io, però, non lo lasciai nemmeno parlare e, appena letti i versi, sedetti al piano, il testo sul leggio e la mano sinistra intenta a cercare le note giuste: il suono di un popolo, quello italiano, che voleva fare l'americano. 

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    Nisa e Rapetti mi guardavano esterrefatti, in religioso silenzio: dieci minuti più tardi avevamo la stesura praticamente definitiva di un successo internazionale. Al primo ascolto tutti e tre ci rendemmo conto di avere tra le mani una bomba, ma, soprattutto, che la premiata ditta Nisa-Carosone ne avrebbe combinate delle belle. In pochi giorni, poi, firmammo anche 'O suspiro e Buonanotte.

     

    Dopo le ottime vendite dell'album che conteneva Maruzzella, infilammo una travolgente serie di brani indovinati, poi entrati nella storia della musica leggera italiana e, forse, anche in quella del costume (non lo dovrei dire io, ma molti amici critici sostengono che è così e non voglio contraddirli, altrimenti si arrabbiano e perdo la loro stima), raccontando in tono giocoso vizi e virtù di una nazione alla vigilia del boom (?), dei favolosi (?) anni Sessanta. T'aspetto 'e nove, Torero, 'O sarracino, Pigliate 'na pastiglia, Caravan petrol, 'O russo e 'a rossa e 'O mafiuso non sono semplicemente dei successi, ma la colonna sonora di un'era di transizione, la memoria sonora di più d'una generazione.

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    Questo però l'ho capito in seguito, quando ho letto che cosa se ne era scritto, spiegando anche a me stesso il segreto del mio trionfo, i cui ingredienti vincenti sembrano essere stati: le allusioni sessuali nemmeno troppo mascherate («Aaaah, sei una bontà», cantavo in 'O suspiro, una canzone-sceneggiata sulle bellezze di una ragazza al cui passaggio il gelatiere impazzisce, il ragioniere non... ragiona più e il barbiere non... insapona più); la capacità di dar voce a una generazione stanca delle banalità canzonettare, ma non disposta a rinunciare a un facile consumo musicale (come ha sottolineato un musicologo del livello di Diego Carpitella); l'aver fornito al momento giusto un sottofondo ritmico per le serate nei night e per le feste «da pomicio»; l'inserimento, sponsorizzato da Gegè Di Giacomo, di voci e rumori estemporanei (il pubblico, un venditore di sigarette, un colpo di pistola, un fischietto); la voglia di esotismi alla buona, strappando sorrisi, anzi risate, giocando con i ritmi e le lingue a proprio piacimento, tra allitterazioni e correzioni metriche, parodie, pastiches, citazioni...

     

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    Una riforma più che una rivoluzione, si diceva prima. Anche perché davvero io non inventai nulla, limitandomi a spostare un po' più in là il comune senso musicale, partendo da quel gran crogiolo sonoro che era, che è e che sempre sarà Napoli. Questo procedimento è evidente in Pianofortissimo, un altro dei successi di questo periodo, soltanto strumentale: il pezzo unisce due temi, una melodia anni Venti e un boogie sfrenato, incalzante sequenza di ottavi puntatisedicesimi che a qualcuno ricordò tal Pete Johnson e ad altri il «Boogie woogie» a Marechiaro di Cosimo Di Ceglie. 

     

    Il fiume di note, ribattute l'una dopo l'altra a velocità ultrasonica, sembrò l'equivalente tastieristico della tremolante corsa dei mandolini, impegnati nell'eterna serenata. L'interpretazione è suggestiva e si potrebbe adattare a tutta la mia produzione, sempre sospesa tra Stati Uniti e melodia napoletana. Ma dietro la nascita di Pianofortissimo non c'erano quelle considerazioni; mentre correvo sui tasti, io non pensavo ai mandolini e alla nostra tradizione e mi limitavo a creare una sorta di stacchetto, un intermezzo tra una canzone-scenetta e l'altra, un pezzo di bravura, un virtuosismo con un pizzico di nostalgia per l'epoca dei pianini ambulanti. Io e i miei compagni d'avventura facevamo canzonette, non pensavamo che fossero destinate a durare.

     

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