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    RENZI CONFINA I NEMICI NEI COLLEGI A RISCHIO - CON LA SCUSA DI SOLLETICARE LA VANITÀ DEI BIG, I RIVALI INTERNI RISCHIANO DI FINIRE NELLE AREE PIÙ DIFFICILI: MINNITI RISCHIA LA FACCIA NELLA SUA CALABRIA E GENTILONI SI GIOCHEREBBE LA RICONFERMA A PALAZZO CHIGI SE PERDESSE AI PARIOLI - LOTTA ALL'ULTIMO SANGUE: I PARLAMENTARI USCENTI DEL PD SONO 290 GLI IPOTETICI ''RIENTRANTI'' SONO MENO DELLA METÀ


     
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    Luca Telese per ''la Verità''

     

    La candidatura come un mezzo per regolare i conti interni nel Pd, il «fuoco amico» come lavacro purificatore dei dissidi interni e dei rapporti di forza.

     

    L' ultimo tormentone sulle candidature si agita in queste ore, e mette nel mirino gli uomini di governo papabili di leadership come Paolo Gentiloni e come Marco Minniti. Sopra la soglia critica del 25% (quella che aveva nel momento in cui è stata approvata la legge - infatti - il Rosatellum avrebbe regalato grandi opportunità elettorali al Pd, enormi possibilità di essere addirittura sovrarappresentato rispetto al suo peso elettorale specifico.

    MATTEO RENZI E MARCO MINNITI MATTEO RENZI E MARCO MINNITI

     

    Ma sotto il 25% - che tutti i sondaggi attribuiscono in queste ore al partito - i seggi proporzionali crollano, gli eletti certi diminuiscono, e quelli uninominali diventano insicuri quasi ovunque.

     

    Ecco i parametri di massima su cui si ragiona adesso al Nazareno: per eleggere un deputato proporzionale con certezza bisogna prendere un quoziente pieno del 16% (per eleggerne due, dunque, bisogna prendere il 32%). Per eleggere un deputato al maggioritario bisogna vincere una sfida triangolare di grande incertezza. A complicare tutto ci si mette l' obbligo dell' alternanza uomo-donna imposta dalla legge.

     

    Così, il Pd può garantire l' elezione certa - quasi ovunque - solo il primo dei collegi proporzionali plurinominali e quasi a nessuno dei collegi maggioritari: ci sono più garanzie solo in alcune parti della Toscana e dell' Emilia Romagna, nessuna speranza in tutto il nord, poche speranze nel sud (dove prevalgono la destra o i cinque stelle), pochissime garanzie nel Lazio (dove il Pd è insidiato dalla forza del M5s).

     

    RENZI LOTTI RENZI LOTTI

    Altro dettaglio: gli uscenti sono 290 (il gruppo più grande della storia del Pd, quello conquistato da Pier Luigi Bersani nel 2013 grazie al premio di maggioranza) gli ipotetici «rientranti» sono meno della metà. Nessuno vuole andare a correre nei collegi uninominali, sul proporzionale in cui passa solo il primo spesso ad essere svantaggiato è il candidato maschio (che spesso dovrà cedere la testa di lista a una donna). Senza contare che il Pd dovrà ospitare in alcuni dei suoi uninominali certi anche i dirigenti più significativi dei cespugli alleati, dai centristi ai radicali, dai santagatiani alla Lorenzin.

     

    Ecco perché, con questa ragnatela complessa di vincoli e di variabili, non tutti hanno colto il peso del messaggio lanciato dal ministro Graziano Delrio alla Stampa: «Noi ministri siamo orientati a correre tutti nei collegi». Facile a dirsi, per uno che viene da Reggio Emilia; molto più difficile per chi si trova nelle aree elettorali per così dire depresse.

     

    Guardacaso, a trovarsi in questa condizione sono i due personaggi più in vista dell' esecutivo. Se Gentiloni sarà capolista nel Lazio, è ovvio che dovrà avere un collegio nella stessa regione. Il meno insicuro, per adesso, è quello di Roma-Parioli. Ma secondo un retroscena della Stampa, il Quirinale avrebbe avvisato che in caso di sconfitta sull' uninominale, Gentiloni perderebbe il «canone» della non sfiducia, necessario per restare alla guida della prorogatio dopo il voto.

     

    MARCO MINNITI E MATTEO RENZI MARCO MINNITI E MATTEO RENZI

    Quindi, delle due l' una: o rinuncia al collegio e perde legittimità simbolica, o corre anche nel collegio e rischia. Ancora più complessa la situazione di Marco Minniti, dato che la Calabria è una delle aree più insicure. Ultima risorsa: essere paracadutati altrove per ottenere più garanzie?

     

    Possibile. Ma - a ben vedere - il ricorso al collegio sicuro fuorisede diventa una diminutio e un danno di immagine. Proprio il risultato che Renzi voleva raggiungere, forse: utilizzarli come acchiappa voti, ma anche logorarli nella (loro) immagine.

    Intanto, prima di Natale, il Pd ha ridisegnato i collegi sicuri di Umbria Toscana e Emilia Romagna - rispetto al piano originario del ministero dell' Interno, che era molto diverso, per renderli ancora più blindati.

     

    Creando dei piccoli paradossi, come i «collegi striscia» che vanno da città di Castello a Foligno (ma senza toccare Perugia). Tecnicamente, si chiama «jerrymandering»: è la scrematura che serve a rendere più sicuro un collegio escludendo le circoscrizioni dove prevalgono gli avversari con una avveduta operazione di ritaglio.

    GENTILONI E RENZI GENTILONI E RENZI

     

    Si poteva fare per alcuni, ovviamente, ma non per tutti. Lo si è fatto nell' Italia centrale. Nel fortino crepuscolare del Pd assediato, quando la prospettiva della vittoria si allontana, la trappola del fuoco amico diventa un rischio concreto.

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