Stefano Agresti per il “Corriere della Sera”
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Più che ammirato, e certamente lo è, Arrigo Sacchi è sorpreso. Stupefatto, quasi. Non per il risultato dell'Italia, ma per il modo in cui gli azzurri sono arrivati a questo traguardo straordinario: pressing, aggressività, attacco anziché difesa (o comunque prima offendere, poi proteggersi). Un atteggiamento mentale e tattico introdotto da Mancini che - secondo il costruttore del grande Milan di Berlusconi - potrebbe trascinare verso una nuova era tutto il nostro calcio, sospinto da principi diversi.
Arrigo Sacchi, quanto l'ha stupita l'Italia di Mancini?
«Moltissimo. Roberto è uscito dal retaggio del gioco difensivo che fa parte da sempre del calcio italiano. Ha fatto una cosa differente, nuova. Almeno se la confrontiamo con il percorso recente del nostro movimento».
Arrivavamo dalla delusione atroce di un Mondiale al quale non avevamo nemmeno partecipato.
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«E non solo da quello, che era stato l'apice della disfatta. La verità è che, da dieci anni a questa parte, avevamo preso batoste sempre e ovunque, con i club e con la Nazionale. Per crescere bisogna esaminare e conoscere la storia, e non solo quella lontana nel tempo. Noi negli ultimi due lustri non eravamo esistiti».
Questione di mentalità?
«Cos' è il calcio per noi? Definiamolo. Quando lo chiedevo a Coverciano, nessuno sapeva rispondermi. È forse uno spettacolo sportivo? No, per noi no: è quello che capitava nell'arena. Abbiamo pensato per tanto tempo che distruggere fosse meglio che costruire, invece è l'esatto contrario. La speranza è che, a forza di perdere, ci sia venuto qualche dubbio. Einstein diceva: solo i pazzi credono che, facendo sempre le stesse cose, si abbiano risultati diversi. Forse noi abbiamo capito che bisogna cambiare per migliorare».
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In questo Europeo meraviglioso, l'Italia nel gioco ha davvero sofferto solo contro la Spagna.
«Non è un caso. Anzi. Loro in questi dieci anni, gli stessi nei quali noi ci preoccupavamo di distruggere, lavoravano per costruire. Hanno creato una scuola, una mentalità, e sono efficaci anche quando non hanno interpreti straordinari come adesso, ad esempio, nel ruolo di centravanti. Guardate cosa hanno vinto gli spagnoli di recente: due Europei, un Mondiale e poi in dieci anni addirittura sei Champions League e sette Europa League. L'Italia in questo stesso periodo è rimasta a zero tituli , come dice Mourinho».
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Perché Mancini ha affrontato questa avventura in Nazionale con questi principi in controtendenza?
«Perché è stato all'estero, ha lavorato in Inghilterra, è cresciuto grazie a quelle esperienze. Fuori dall'Italia la mentalità è differente, da noi non diamo nemmeno tempo a un commissario tecnico di costruire. Eppure quel lavoro ha bisogno di pazienza».
Lo ha sperimentato sulla sua pelle, passando dal Milan alla Nazionale.
«Con il club facevo trecento allenamenti all'anno, in azzurro se va bene hai la possibilità di organizzarne trenta, forse meno, venticinque. È tutto più difficile, i sincronismi non si creano senza lavorarci a lungo. Quando ero in Nazionale dicevo che tutte le mie squadre precedenti avevano giocato meglio rispetto a quella, non solo il Milan ma anche il Parma e il Rimini, nonostante i valori tecnici ovviamente diversi. Perciò Mancini è stato bravissimo: ha raccolto i cocci dell'esclusione dai Mondiali e ha costruito un capolavoro».
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Ha anche restituito passione al Paese: la Nazionale è stata seguita con un entusiasmo travolgente. È solo merito dei risultati?
«C'è anche altro. La gente si è appassionata perché ha visto una squadra che pensa innanzitutto a attaccare, che vuole costruire, che pressa. Non un gruppo di comparse, ma di protagonisti. Purtroppo da noi questa idea di calcio non è mai esistita, in Europa è sempre stato diverso rispetto a quanto succedeva nel nostro Paese. Sa cosa facevo trent' anni fa per allenare il Milan al pressing che avremmo dovuto fronteggiare in Coppa dei campioni? Prendevo i ragazzi della Primavera e dicevo loro di correre più che potevano a caccia del pallone, come fossero cani con la preda. In serie A nessun avversario ci abituava a quel tipo di aggressività».
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Pensa che il trionfo dell'Italia, arrivato attraverso il gioco e non con la scaltrezza, possa aprire un'era nuova nel nostro calcio?
«Mi auguro che diventi un modello, del resto noi andiamo avanti per imitazione. Io amo fare lunghe passeggiate dalle mie parti e osservo ciò ho attorno. Se un contadino mette l'uva davanti a casa, i vicini subito lo copiano: qualche giorno dopo, tutti hanno l'uva. Così accade nel calcio, da noi. Speriamo dunque che altri allenatori seguano l'esempio degli azzurri. E comunque c'è già qualcuno che ha la mentalità giusta».
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A chi pensa?
«A Sarri, ad esempio, ma anche a Gasperini. E poi ai giovani: De Zerbi, Italiano, lo stesso Juric. Tutta gente che non tiene dietro un uomo in più del necessario, perché altrimenti non ne può disporre quando offende, e accetta di giocare con il sistema puro: un difensore per un attaccante. Sono strateghi, non tattici. Come Mancini. E la differenza non è irrilevante, anzi cambia tutto».
Il suo auspicio è che l'Italia di Mancini si trasformi in un modello di calcio d'attacco come il Milan di Sacchi 35 anni fa.
IL COLPO DI TACCO DI ROBERTO MANCINI DURANTE ITALIA GALLES
«Quando noi cominciammo a giocare in un certo modo, anche all'estero, l'Italia vinse quindici coppe europee in appena undici anni. Non fu un caso, ma una questione di atteggiamento, di idee, di testa. Oggi sento ancora allenatori che dicono: in campo vanno i calciatori, noi non giochiamo, che cosa possiamo fare più di questo? Anche il direttore d'orchestra non suona, anche il regista non recita. Eppure ho sempre saputo che Muti e Spielberg facevano la differenza».
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