DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Marco Giusti per Dagospia
Comincia bene “Alice nella città”, la rassegna parallela al Rome Film Fest, perché il film di apertura, opera prima del documentarista afroamericano già candidato all’Oscar RaMell Ross, è bellissimo e viaggia già verso la grande stagione americana dei premi.
Presentato a Telluride in agosto e a fine settembre al New York Film Festival, “Nickel Boys”, tratto dal romanzo Premio Pulitzer di Colson Whitehaed ispirato a una terribile e vera storia anni ’60 di violenza e segregazione razziale accaduta nella Dozier School for Boys in Florida, a Tallahassee, vanta da una parte una costruzione artistica, ma mai fine a se stessa, sia narrativa che visiva, che esplode nella direzione della fotografia di Jomo Fray, dall’altra un’origine tra cronaca e crime esplosiva e molto documentata.
RaMell Ross affronta infatti, diluendo su diversi piani temporali il suo racconto, la vita di Elwood Curtis, interpretato da Ethan Herisse, che da ragazzino, del tutto innocente, mentre andava al college, si fa dare un passaggio da un ladro di automobili (ruba una Impala azzurra che noterebbe anche un cieco), e finisce in un riformatorio modello, il Nickel, che è in realtà una sorta di lager dove i guardiani bianchi fanno scomparire per sempre i ragazzi neri che tentano di scappare o che non assecondano i loro ordini e da dove non sarà facile uscire.
Al Nickel, Elwood incontra un altro ragazzo che diventerà suo amico inseparabile, Turner, interpretato da Brandon Wilson. Nei flash forward ambientati vent’anni e passa oltre, veniamo a sapere non solo tutto l’orrore che nasconde il riformatorio, ma anche quello che ha provocato a chi ne è comunque uscito vivo.
RaMell Ross costruisce tutto questo alternando le soggettive dei due ragazzi, cioè quella di Elwood e quella di Turner, confondendone le identità quasi specchianti, riuscendo a combinare un racconto cinematografico da campo-controcampo solo quando i due si parlano, mentre, per raccontare la vita di Elwood più grande, piazza la camera dietro le sue spalle.
Come se non fosse più la soggettiva di Elwood, ma neanche di Turner. Ne viene fuori un tour de force visivo spettacolare che obbliga lo spettatore a entrare sempre di più nella storia e nei personaggi protagonisti. Ma il regista concede il momento recitativo più alto a Aunjanue Ellis-Taylor, che interpreta la nonna di Elwood, che esplode in un monologo sull’essere neri in America che penso riuscirà a portarla alla candidatura all’Oscar da non-protagonista.
Devo dire che quella che potrebbe sembrare una costruzione stravagante e un po’ da scuola di cinema, in realtà è tutta motivata e, dopo i primi momenti di assestamento, funziona benissimo anche narrativamente. E funziona pure il continuo unire al racconto di Elwood e Turner le cronache americane del tempo, dai viaggi dell’Apollo 8 a Lyndon B. Johnson.
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