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Marco Giusti per Dagospia
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Arieccola la Festa del Cinema di Roma. Diretta al terzo anno da Paola Malanga, mentre come Presidente Salvo Nastasi, come saprete, ha preso improvvisamente il posto di Gianluca Farinelli. Ecco. Già un festival che parte con un film su Berlinguer e con una citazione di Antonio Gramsci sulle piccole e sulle grandi ambizioni (“Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è invece indissolubile dal bene collettivo”), parte bene.
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E si fa perdonare la presenza in concorso dei film di Luca Barbareschi e di Elisabetta Sgarbi, che non mi perderò per nulla al mondo. Inoltre Gramsci, come tutti sappiamo, è stato oggetto di studio anche del neo-ministro Alessandro Giuli nel suo “Gramsci è vivo” (anche se, leggo, che nel suo Gramsci “aleggia Giovanni Gentile”).
Ora, quando penso a Berlinguer e il cinema non posso non pensare al capolavoro di Giuseppe Bertolucci e Roberto Benigni “Berlinguer ti voglio bene”, con Berlinguer che deve darci il via per la rivoluzione ma non lo fa perché “ci ha da fare… ha famiglia”, o all’invettiva di Benigni “Ti venisse un figlio che assomiglia a Berlinguer” o a Benigni che prende in braccia Berlinguer sul palco.
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Tutto questo lato giocoso, popolare, nostalgico non c’è in questo serio e serioso “Berlinguer. La grande ambizione” scritto e diretto da Andrea Segre, che non è per fortuna un biopic, ma la messa in scena, documentatissima, piena anche di stupendi repertori poco o per nulla visti, del Berlinguer tra il 1973 e il 1978, cioè quello del Compromesso storico. Quello che cerca di arrivare al governo con la DC di Aldo Moro alla faccia di Giulio Andreotti e di Fanfani e che viene bloccato dal rapimento e dall’uccisione di Moro.
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Isolando il film a un preciso periodo storico e a una precisa situazione politica, italiana e internazionale, Segre e il suo cosceneggiatore, il padovano Marco Pettenello (una carriera che va da “La lingua del santo” a “La chimera”) riescono a costruire una narrazione che non sbanda da tutte le parti come quasi tutti i biopic che vogliono raccontare troppo e non sono inchiavardati a un preciso contesto.
Qui il film si apre nel 1973 con il Cile di Salvator Allende e il golpe di Pinochet, mentre Berlinguer vola prima in Bulgaria e i servizi segreti bulgari cercano di eliminarlo con un finto incidente in autostrada (perché? Perché si sta allontanando troppo dalla Madre Russia), poi a Mosca e infine si chiude con la decisione di un nuovo governo col PCI e con la morte di Moro per mano delle Brigate Rosse.
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In mezzo non c’è solo il tentativo di unire le forze operaie a quelle popolari cattoliche, c’è anche l’idea di cambiare radicalmente il paese con un partito che rappresenta un italiano su tre, 11 milioni di elettori, il 25-29%. Cosa che ai Cioni Mario in attesa della rivoluzione poteva non andare giù. Allora. Ma ora, dopo vent’anni di berlusconismo, di Lega al potere e con la Meloni al 29%, diventa come una puntata di “Stranger Things” e ti domandi cosa è capitato a questo paese che aveva una base, cattolica e comunista, sana e popolare.
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Segre e Pettenello, fortunatamente, non fanno (troppo) neanche il santino di Berlinguer e di Moro. Fanno un film serio, onesto, senza grandi invenzioni di regia, ma sincero, lontano sia da Veltroni che Bellocchio, con una bellissima fotografia di Benoit Dervaux, il direttore della fotografia dei Dardenne, che alla proiezione per la stampa stamattina è molto piaciuto e è stato sinceramente e a lungo applaudito. Segre ha cercato, nei limiti del cinema politico italiano, di non esagerare con i personaggi troppo truccati alla Bagaglino, e di cercarsi una strada nuova e personale.
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Tutto il cast è di grande livello, dal Giulio Andreotti di Piero Pierobon (già Berlusconi, già D’Annunzio) al Luciano Barca di Andrea Pennacchi (favoloso), dal Pietro Ingrao di Francesco Acquaroli al Menichelli di Giorgio Tirabassi, dalla Nilde Jotti di Fabrizia Sacchi all’Aldo Moro di Roberto Citran. Certo ritrovare Elio Germano, in questi giorni in sala anche come Matteo Messina Denaro, nei panni di Enrico Berlinguer fa un po’ effetto. Come voce devo dire che è perfetto, come movimenti pure, ma quella parrucca è troppo pesante.
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Quando deve rifare i pezzi di Tribuna Elettorale ammetto che li fa benissimo, anche in famiglia con le figlie e la moglie, la brava Elena Radonicich, e, come il vero Berlinguer, non è mai ironico. Magari il Berlinguer che ci ricordiamo noi non è quello reale, ma proprio quello mediato da Benigni.
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Alla fine il film non è che ci dica cose che non si sapevano su Berlinguer, forse l’attentato a Sofia?, ma almeno ci riporta indietro in un tempo, ambiguo e oscuro anche più di oggi tra Cia, servizi deviati, attentati, dove i politici di sinistra leggevano Rosa Luxemburg e nascondevano fra le pagine del suo “L’accumulazione del capitale” un piccolo capitale come un biglietto da 50 mila lire. Devo dire che è l’unica gag del film e mi ha fatto ridere. In sala dal 31 ottobre.
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