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    ROMA, UN COLLE IN PIU’: LAURYN HILL – BOMBASTICO CONCERTO DELLA REGINA DELL’HIP HOP: CANCELLATE LE BEYONCÉ, LE RIHANNA, LE MINAJ (E MASCHI ANNESSI) – FOLLE E GENIALE MESCOLA SOUL, REGGAE, RAP, POLITICA, AMORE E RELIGIONE, EVITANDO PERÒ DI SQUADERNARE LE NATICHE


     
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    FOTO MUSACCHIO E IANNIELLO

     

    Simona Orlando per Dagospia

     

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    Un’ora di ritardo è un atto di cordialità per un’artista che spesso risolve la serata non presentandosi sul palco. La produzione sa che devi metterci le toppe ed è attrezzata per l’evenienza, così ieri sera all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il dj ha improvvisato un pasticcio di dub, untz untz e California dreamin’, per intrattenere i quattromila compressi come sottaceti, tra cui spuntavano le tante chiome fasciate da foulard colorati, come Nina Simone vuole.

     

    Lauryn Hill era in missione per conto di Dio a fare shopping, è arrivata alle 22, vestito e capelli corti, cappello, undici musicisti alle spalle, tecnici nuovi perché gli altri li ha licenziati due giorni fa. E’ fatta così, l’ex ragazza prodigio di East Orange, che è solita liquidare i collaboratori e ha diverse beghe legali: l’ex chitarrista Jay Gore le ha chiesto un lauto risarcimento per maltrattamenti, nel 2013 ha scontato tre mesi di carcere per evasione fiscale ed è bandita dal Regno Unito, dove sono appena saltati i suoi concerti (ma è confermata la data di Lucca il 20 luglio).

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    Imbraccia l’acustica e, seduta sulla panca, infila “I Gotta Find Peace of Mind”, “Mr. Intentional”, "Oh Jerusalem", “Freedom Time”, un sacco di brani di quell’”MTV Unplugged No. 2.0” che la trasformò in una folk singer hip-hop e le costò molto critiche. Sul palco è una mina vagante, l’incarnazione dell’ansia, ossessionata dal controllo. Gesticola invasata, dirige, ordina l’assolo di chitarra, lo stoppa, fa partire la batteria, rallenta, accelera, impone di cambiare gli arrangiamenti in corso, rende irriconoscibili le canzoni. I primi venti minuti sono spiazzanti, è una grande jam session, prove aperte parecchio tese per la band che deve avere riflessi prontissimi.

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    La Hill si placa nella incantevole cover di Sade “Love Is Stronger Than Pride”, ripesca “Ex-Factor”e “Lost Ones”, successi del suo primo disco solista, capolavoro del 1998 intitolato “The Miseducation of Lauryn Hill”: 18 milioni di copie vendute, bottino di Grammy, inizio del crollo psicologico che la portò a uscire dalla carreggiata del music business e a parcheggiarsi per un po’ con i suoi demoni.

     

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    Troppa pressione, troppe aspettative, meglio sparire. Eppure, a tanti anni di distanza, quelle canzoni sembrano essere state scritte oggi. "Mystery of Iniquity" e “Final Our” la incoronano MC, regina invettiva dell’hip hop che fa vergognare le Beyoncé, le Rihanna, le Minaj (e maschi annessi), ascese dopo il suo declino e proprio grazie a lei, che per prima seppe mescolare soul, reggae, rap, parlare di politica, amore e religione, mostrare l’orgoglio africano evitando però di sfruttare la bellezza, navigando in classifica senza la patente “natica”.

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    Lauryn Hill non cede alla nostalgia nemmeno sui tormentoni dei Fugees (“Fu-gee-la”, “Ready Or Not, la cover “Killing Me Softly”) e dedica una lunga parentesi a Bob Marley, uno di famiglia, dato che il figlio Rohan le ha dato cinque pargoli (il sesto è di padre incerto). L’Auditorium diventa Giamaica su “Jammin’” (in medley con “Master Blaster” di Stevie Wonder), “Is This Love” e “Could You Be Loved”, tutto divertente e corale, più preciso e rodato del resto, ma non emotivo come “To Zion”, dove la sua voce ricca di sfumature fa salire i brividi, e “I’m Feeling Good”, omaggio a Nina Simone, così vicina, nelle corde e nei tormenti.

     

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    Su “Doo Wop”, i saluti di questo immenso e ingestibile talento. Lauryn Hill ci ha riproposto la bellezza dell’imprevedibilità. Abituati ai concerti preconfezionati e alle scalette immutabili, ci ha turbati e risanati, rammentandoci l’unicità che dovremmo esigere da un live. 

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