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    NON TUTTE LE CIAMBELLE RIESCONO COL BUCO, VUOTO O NERO CHE SIA - FRANCO CORDELLI STRONCA L'ACCLAMATO ROMEO CASTELLUCCI: ‘’LA MORTE DI EMPEDOCLE’’ CON LA TRAGEDIA DI HÖLDERLIN NON C’ENTRA NIENTE. NE CONDIVIDE SOLO IL TITOLO - L’EFFETTO PRODOTTO È CHE VENGONO I NERVI PER LA PRESUNZIONE, ANZI L’ARROGANZA, VECCHIO DIFETTO DI CASTELLUCCI – VIDEO


     
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    Franco Cordelli per “la Lettura - Corriere della Sera”

     

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    Si incrociano due storie, quella delle tre stesure e quella della resurrezione del testo nei tempi nostri. Sto parlando di La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin che in una palestra di Baiano inaugura il cartellone della prosa per il festival di Spoleto: una o due repliche al giorno in orari inconsueti, a volte le undici del mattino, a volte le quindici — ma anche le diciotto.

     

    La regia dello spettacolo è di Romeo Castellucci; la storia del testo, come ho appena detto, è piuttosto travagliata. Nel novembre 1798 il poeta scrisse alla madre: «È il mio ultimo tentativo di acquistare valore con i miei propri mezzi; se fallirà cercherò in tutta tranquillità e modestia di rendermi utile agli uomini nella funzione più semplice che potrò trovare».

    castellucci La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin, Spoleto castellucci La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin, Spoleto

     

    Hölderlin aveva ventotto anni. Non portò a termine, della sua tragedia, la prima e più lunga versione; la seconda, composta di sole quattro scene, la scrisse l’anno successivo; nello stesso 1799 una terza e ancora più breve, ovvero più incompiuta versione scaturisce da un saggio, Base dell’Empedocle, mentre base teorica della prima stesura era il Piano di Francoforte. Il passaggio dalla prima alla terza versione accentua il contrasto tra il filosofo protagonista e suo fratello Stratone, re di Agrigento (prima nel testo c’era Ermocrate, un sacerdote).

     

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    Empedocle è già a Siracusa ospite del «padre Etna» e la disputa con il fratello, rispetto a quella con Ermocrate, acquista una connotazione politica. Di fronte al sacerdote Empedocle si chiude nel suo «dolore sacro». L’unico che gli è rimasto fedele, il giovane Pausania, gli chiede: perché ora odii tutto? Empedocle risponde: perché non potrei più amare ciò che mi somiglia. Ma chi o che cosa gli somiglia? Tutto il popolo di Agrigento, sul quale ha esercitato un’influenza al di là dei limiti —fin quasi a diventarne tiranno. Di qui la sua fuga da Agrigento a Siracusa, all’Etna: là dove Ermocrate non aveva indugiato nel dichiararlo straniero (e qui è un poco il disprezzo per chi cade, per l’idolo infranto — benché la caduta sia dopotutto volontaria).

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    Nell’ultima versione tutto cambia. Il filosofo-tiranno riconosce nella sua scelta una coazione: essa è determinata dal peccato, che sia «legge di successione» rifiutata o «peccato originale» (il teologo Hans Küng parlò di «progressiva cristianizzazione» del protagonista). Empedocle, è lui stesso ad ammetterlo, pur venerando la Natura ha ubbidito di più all’Arte (allo Spirito): così allontanandosi dall’Uno.

     

    Ora pensa che è necessario vivere in uno stato di equilibrio-tensione tra l’una e l’altra, tra la Natura e l’Arte (così Beda Alleman, uno dei suoi grandi interpreti, con Martin Heiddeger e Georg Gadamer). Ma il suo antagonista, lì ai piedi dell’Etna, poiché diventato re, non può che onorare la Legge, egli è legato alla Terra. Il conflitto, prima che Empedocle precipiti nel fuoco o si dilegui, acquista la connotazione politica di cui dicevo: democrazia o fine della democrazia.

     

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    L’equilibrio che deve essere ripristinato è quello tra l’uno e i molti, tra colui che fu tiranno e i cittadini. Fin qui la questione delle tre stesure, mai finite dal poeta abbandonato dall’orgogliosa giovinezza. Nel 1807 l’amico Sinclair, alla luce delle lettere di Hölderlin alla madre e di evidenti segni di ottenebramento, lo fa ricoverare in una clinica, da dove viene affidato al falegname Zimmer: il poeta resterà con Zimmerin una torre sul fiume Neckar, presso Tubinga, fino alla morte nel 1847.

     

    La rinascita del dramma avviene per opera di Klaus-Michael Grüber, alla Schaubühne di Berlino negli anni Settanta. Un altro regista tedesco, JeanMarie Straub, nel 1986 dedicò uno dei suoi film più belli a La morte di Empedocle, girato tra Segesta e l’Etna in una scabra devozione per la natura circostante, per quanto arida, brulla, con quasi nessuna suggestione di vitalità.

     

    castellucci La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin, Spoleto castellucci La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin, Spoleto

    L’anno dopo comincia il ritorno di Empedocle in Italia. A mettere in scena il dramma furono Cesare e Daniele Lievi a Gibellina, tra le rovine terremotate del paese vegghiu, come dicevano i gibellinesi trapiantati nella valle del Belice. Qui il deserto era segnato da agavi, olivi, eucalipti; e, in più, dal Cretto di Burri.

     

    Il dio di Agrigento, prima osannato e poi allontanato dal popolo, si muoveva dentro una doppia struttura circolare disegnata dallo scultore Nunzio. In quel potente spettacolo (stando ai ricordi) il protagonista era Franco Branciaroli, accompagnato da Maurizio Donadoni, Franco Mezzera, Edoardo Siravo e Caterina Vertova. Nel 1993, proprio a Segesta, con Aldo Reggiani protagonista, e attenendosi alla terza stesura, Roberto Guicciardini propose uno spettacolo fiammeggiante.

     

    CORDELLI CORDELLI

    Scrivevo: «Empedocle avverte un declino della sua energia, della potenza che l’aveva portato alla guida di Agrigento. Chiedersi perché ciò accada, perché sia iniziata questa caduta, è già un modo di arginarla. Una contraddizione ne fu la causa. Empedocle ha predicato la morte degli dèi, cioè la democrazia. Ma chi predica la morte degli dèi si fa dio egli stesso. Invece della democrazia, instaura una aristocrazia», se non una dittatura. E l’anno dopo, Empedocle tiranno di Maurizio Grande, una geniale riscrittura del testo, è proprio sulla figura del dittatore che concentrò la sua attenzione. Protagonista del dramma era diventato un uomo agile, che si gettava nei fiumi (Mao Zedong) o lo «zio di Sicilia», Iosif Vissarionovic Dzugašvili (Stalin).

     

    Holderlin Holderlin

    Dietro l’uno e l’altro c’era Friedrich Nietzsche con i suoi «frammenti» su Empedocle. Regista dello spettacolo è stato Alessandro Berdini. Un Empedocle travolgente fu un protagonista dell’avanguardia romana, Ugo Margio. Proprio Margio, nel 2006, riprese lo spettacolo anche in qualità di regista per commemorareidieci anni della scomparsa del suo autore, Maurizio Grande, con gli attori più bizzarri e stupefacenti che si siano visti sui nostri palcoscenici, Severino Saltarelli, Franco Mazzi, Luigi Rigoni, Guidarello Pontani, Simona Volpi e Donatella Lepidio.

     

    Comunque. Tutto questo che precede è fiato sprecato. La morte di Empedocle di Castellucci con la tragedia di Hölderlin non c’entra niente. Ne condivide solo il titolo. Non so se il regista all’autore creda o non creda, tra i due non c’è rapporto. Non sarebbe importante, anche se un altro titolo avrebbe reso la faccenda più sobria. Lo spettacolo è al contrario farcito fino all’arbitrio puro. Oppure. Ora che anche in Italia è da tutti riconosciuto, tre Castellucci in sei mesi per uno stesso spettatore sono troppi. L’effetto prodotto è che vengono i nervi per la presunzione, anzi l’arroganza — vecchio difetto suo.

     

    Holderlin Holderlin

    Quelle quattordici fanciulle alte in camicioni grigi, in pose art déco—corpi lievemente inclinati, leziosi ricordi di Pietà, braccia e dito al cielo — non ci lusingano mai, neppure quando molte di loro si tagliano la lingua o cinque o sei escono di scena nude dopo l’apparizione di una pistola d’oro. Non ci seduce il loro tono dimesso, carezzevole.

     

    Se così voleva essere, se con quel tono alludevano a Hölderlin, non hanno nulla di spirituale-sublime. Sono solo pedanti. In più. Nulla si sente di ciò che dicono (ma non importa). L’acustica della palestra della frazione di Baiano — non siamo proprio a Spoleto—è pessima. Se volessimo essere, un briciolo, da Castellucci influenzati, come fossimo il suo popolo, poiché tutto comincia con un apoftegma alla lavagna sul buco nero, diremmo: non tutte le ciambelle riescono col buco, vuoto o nero che sia.

     

     

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