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    IL TALLEYRAND DELL’ARTE - PARLA DANIEL BERGER: “LA BELLEZZA È UN’ESPERIENZA PUBBLICA CHE PUOI VIVERE PRIVATAMENTE - BURRI SOSPETTOSO, AFRO SOLARE, LA POP ART? IL PRIMO ESEMPIO DI GENIALE MERCHANDISING E ANDY WARHOL IL PROFETA”


     
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    DANIEL BERGER DANIEL BERGER

    Antonio Gnoli per “la Repubblica”

     

    È svelto. Ironico. Elegante. Conosce l’arte della sopravvivenza e della mediazione. Vive alcuni mesi dell’anno a New York e il resto del tempo a Roma. Non esiste in Italia una professione che lo rappresenti. L’unica l’ha inventata lui: Daniel Berger, consigliere del ministro.

     

    Come Talleyrand superò indenne i più diversi regimi, così Berger ha attraversato la bellezza di 15 governi e relativi ministri della cultura: da Alberto Ronchey a Dario Franceschini. Grazie a lui, parecchie opere importanti, trafugate, o partite senza speciali autorizzazioni, sono tornate in Italia. Come il celebre Vaso di Eufronio. «Fu Alberto Ronchey, da poco nominato, a chiamarmi al ministero. Ricordo ancora la telefonata».

     

    Cosa ti disse?

    «Mi chiese se ero Daniel Berger. Mi servirebbe un uomo che parli perfettamente due lingue e abbia due cervelli, aggiunse sbrigativo».

     

    ALBERTO RONCHEY ALBERTO RONCHEY

    Tu eri abbastanza schizofrenico?

    «Lavoravo al Metropolitan Museum di New York. Parlavo piuttosto bene l’italiano ed ero, questo sì, diviso tra l’amore per l’America e per il tuo paese. Con Ronchey non ci conoscevamo. Andò dritto alla questione. A me serve un consigliere per i musei che abbia un’assoluta competenza del sistema americano».

     

    E tu, come reagisti?

    «Ero perplesso. Per prendere tempo gli chiesi quanto avrei guadagnato. Ottocentomila lire, disse. Non mi bastano neppure per un viaggio aereo, risposi. Chiedi a un ricco mecenate americano di finanziarti e la cosa è fatta, replicò ».

     

    Come cambiò la tua vita?

    «Diciamo che si intensificò: volavo tre volte al mese. Ronchey aveva preso sul serio il ruolo di ministro. Anche perché la situazione era abbastanza paradossale».

     

    daniel berger daniel berger

    Ossia?

    «Immagina un paese con un patrimonio artistico enorme; con grandissime competenze negli studi archeologici e artistici, ma con un’idea vaghissima di che cosa fosse un bene artistico, e di come proteggerlo e potenziarlo. E hai l’idea del paradosso. Oltretutto, l’Italia possedeva una massa enorme di beni accumulati nei secoli in larga parte non inventariati. Il che in un certo senso è stato perfino un bene. Un altro paradosso».

     

    Un bene perché?

    ALBERTO RONCHEY ALBERTO RONCHEY

    «È come se per decenni questa massa fosse rimasta congelata. Al riparo da interventi che l’avrebbero compromessa ».

     

    Come sei arrivato a occuparti di musei e beni artistici?

    «Iniziò nel 1961, quando arrivai, giovane e inesperto, al Metropolitan di New York. Ma dovrei fare un passo indietro».

     

    Comincia col dirci dove sei nato.

    «Sono nato a Elizabeth, una piccola città industriale del New Jersey. Ricordo la fabbrica della Singer e le migliaia di operai che vi lavoravano».

     

    C’era anche tuo padre?

    «Papà era dirigente in una fabbrica di componenti elettriche. Sono nato nell’anno in cui da voi promulgarono le leggi razziali: il 1938. Ricordo quell’infamia, perché la mamma era un’ebrea sefardita. Nata a Filadelfia, dove i suoi arrivarono, provenendo dalla Turchia. Erano mercanti di stoffe. Ogni tanto penso che cosa sarebbe stata la mia vita se fossi nato a Berlino, a Varsavia o a Roma. Probabilmente sarei finito in quei campi tedeschi o polacchi, senza ritorno».

     

    Come sono stati gli anni della guerra visti dall’America?

    metropolitan museum of art new york metropolitan museum of art new york

    «Ero molto piccolo. Siamo entrati nel conflitto dopo che alla fine del 1941 ci fu Pearl Harbor. Lo sforzo bellico fu grandioso. La mobilitazione totale. Elizabeth, come credo le altre città industriali, convertì le fabbriche adattandole alla produzione bellica. Si percepiva, tra la gente, fervore e patriottismo. I giovani che partivano erano guardati come eroi che andavano a liberare il mondo dai tiranni. Una sensazione molto diversa da quella che si sarebbe prodotta negli anni della guerra del Vietnam».

     

    Quando dici patriottismo pensi al collante politico?

    SONIA RAULE DANIEL BERGER SONIA RAULE DANIEL BERGER

    «Penso a un sentimento profondamente democratico, ma al tempo stesso a qualcosa per la quale la gente si sentiva impegnata in prima persona. Ricordo che mio padre due volte al giorno saliva sul tetto dell’edificio dove abitavamo, con il binocolo. Era un osservatore di guerra e aveva il compito di identificare gli aerei.

     

    Piccole cose, certo. Ma tenevano in vita un’idea di comunità. Alcuni, durante il tempo libero, lavoravano agli “orti della vittoria”, quelli che da voi erano gli orti di guerra. Insomma ci si arrangiava, nonostante fossimo una grande potenza».

     

    Vinta la guerra che ti accadde?

    Benedetto Croce Benedetto Croce

    «Nel 1956 lasciai Elizabeth per andare a Filadelfia all’università della Pennsylvania. Avevo vinto una borsa di studio e i miei come regalo mi offrirono un viaggio in Europa. Partii con un gruppo di studenti. Visitammo Londra, Parigi, Roma e Atene. Roma mi lasciò stupefatto. Dentro i suoi trionfi barocchi scorgevo la semplicità della vita, l’immediatezza della gente: il suo essere a un tempo aperta e chiusa, generosa e scettica, presente e antica. Durò troppo poco e mi ripromisi che sarei tornato ».

     

    Come era l’università di Pennsylvania?

    «Importante quasi quanto Harvard o Princeton. Chi usciva dall’università trovava immediatamente lavoro. Mi laureai con una tesi su Benedetto Croce. Allora il filosofo italiano godeva di una certa popolarità.

     

    Scelsi un argomento che aveva a che vedere con la dialettica hegeliana. Intendevo provare che Croce aveva, in qualche modo, tradito Hegel. Contemporaneamente presi una seconda laurea in storia dell’arte moderna. Quando fu il momento del master, seppi che bastava trovare un’occupazione nel museo dell’università per non pagare la retta».

     

    ANDY WARHOL ANDY WARHOL

    Fu il tuo primo contatto con quel mondo?

    «Sì, tra le collezioni di arte cinese e greco-romana feci il mio apprendistato. Poi un giorno si presentò un vecchia signora. Chiese al direttore se c’era un giovane che volesse fare da assistente a uno dei capi del Metropolitan Museum. Suggerirono il mio nome. In realtà, ero restio all’idea di trasferirmi a New York. Volevo fare il professore, restarmene a Filadelfia. Che ti costa andare a un colloquio? Disse il direttore».

     

    Tu andasti?

    «Andai. Era gennaio del 1961. Bradford Kellerer, publisher del Met, mi invitò a pranzo. Quest’uomo affascinante e colto vinse le mie resistenze. Lo avvertii che non sapevo nulla di quel mondo. Replicò: è un’ottima base di partenza, pensi che guaio se lei fosse pieno di idee sbagliate. Venga per sei mesi, se non le piace farà sempre in tempo a tornare a Filadelfia. Fu così che abbandonai il master ed entrai al Metropolitan».

     

    Com’era New York nei primi anni Sessanta?

    «Era l’ombelico del mondo. Cominciai a frequentare qualche italiano. All’università avevo studiato la lingua con Domenico Vittorini, un lontano parente dello scrittore. Mi servì per parlare con i miei nuovi amici. Tra questi c’era una coppia, Riccardo ed Emilia Berla. Lui era a capo della Olivetti americana, lei una donna elegante, curiosa, affascinante. Giravamo per gallerie, happening, incontravamo tutti».

     

    Si affacciava la Pop Art.

    «Fu il primo esempio di geniale merchandising e Andy Warhol il profeta. La sua Factory spinse l’arte tra le braccia di un pubblico vasto, dove la competenza era sostituita dal clamore dell’evento. Quell’arte, che non si distingueva dalla pubblicità, cominciò a spettacolarizzarsi ».

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    Fu un bene?

    «Forse no. Forse da un altro punto di vista si mise in moto una specie di safari, dove l’opera d’arte era il trofeo da esibire. Qualcosa del genere l’aveva intuita Leo Castelli. Come gallerista creò uno stile ed ebbe molti imitatori».

     

    Lo hai conosciuto?

    «Bene. Diceva che parlavo un italiano migliore del suo. Era triestino, origini mitteleuropee. Un uomo pieno di charme. In quegli anni frequentavo diversi artisti: George Segal, Frank Stella e Al Held. George mi usava come modello “matrice” per le sue sculture in gesso. Al Held venne in Italia e prese una casa a Todi, non distante da quella di Piero Dorazio».

     

    Dorazio passò un periodo in America.

    «Fu il primo artista italiano che conobbi. Nel 1960 fondò il dipartimento di belle arti alla School of Fine Arts nella University of Pennsylvania, restò lì ad insegnare fino al 1967. Piero fu un amico per la vita. Era un grande artista».

     

    In America c’era stato anche Alberto Burri.

    «Fu anche rinchiuso in un campo di prigionia in Texas. Ma il suo lavoro ha influenzato gli artisti americani, più che esserne influenzato. Ricordo a Roma nel suo studio venne a trovarlo Robert Rauschenberg. Era stupefacente vedere quest’uomo totalmente perso nei quadri di Burri.

     

    ALBERTO BURRI ALBERTO BURRI

    Certe volte incontravo Rauschenberg a casa di Giorgio Franchetti. Un grande collezionista nonché cognato di Cy Twombly, del quale fui amico. E poi c’era Afro, anche lui con un passato americano. Tanto Burri era silenzioso, riservato, a volte sospettoso, quanto Afro mi appariva solare e paziente».

     

    Torniamo al tuo lavoro al Met.

    «Furono anni molto intensi e di grandi trasformazioni. Si cominciava a delineare una concezione moderna delle collezioni esposte. Aprii, tra le molte iniziative, una galleria d’arte in seno al Museo composta di multipli e di stampe di artisti sconosciuti e noti.

     

    Ricordo che una signora vedendo una stampa di Ellsworth Kelly chiese quanto valeva. Risposi per la carta e l’inchiostro impiegati vale tre o quattro dollari. Ma se lei ne paga 500 è segno che crede in quel valore aggiunto».

    BURRI BURRI

     

    Come reagì?

    «Pensa che sia un valore che reggerà nel tempo? Le risposi che il tempo è una variabile indipendente. Anche l’oligarca che acquista un Modigliani per 150 milioni di dollari, non sa se ha fatto un buon affare. Ad ogni modo nel 1970 lasciai il Metropolitan».

     

    La ragione quale fu?

    «Apparentemente perché scoprii che pagavano un mio assistente più di me. In realtà, ero un po’ stanco di quel mondo. Decisi di venire a vivere a Roma. Con un socio aprii un vivaio. Allevavo galline, curavo e vendevo le piante. Andò avanti per quattro, cinque anni. Divenni amico di Audrey Hepburn. Frequentavo Gore Vidal. Quando acquistò la Rondinaia a Ravello, mi chiese di accompagnarlo. Era il 1972.

     

    susan sarandon susan sarandon

    Disse che la prima volta che l’aveva vista era alla fine degli anni Quaranta con Tennessee Williams. Pagò senza fiatare 280 milioni. Era una villa bellissima a picco sul mare amalfitano. Invitava i suoi prestigiosi amici, da Mick Jagger a Susan Sarandon. Per un uomo che era sempre fuggito da tutto e da tutti, quella scelta sembrò una ritrovata serenità e mondanità».

     

    Dopo il vivaista cosa hai fatto?

    «Conobbi Walter ed Eleonora Rossi. Erano stampatori di grandi artisti: Burri, Afro, Consagra. Mi chiesero se potevo metterli in contatto con artisti americani. Portai da loro Franck Teller, George Segal, Lee Krasner, moglie di Jackson Pollock. Poi nel 1977 tornai al Met. Avevano scoperto un mio progetto di razionalizzazione del sistema museale. Fu Thomas Hoving a chiamarmi. Gli dissi: va bene vengo per sei mesi l’anno. Non volevo rinunciare all’Italia».

    pollock pollock

     

    Cosa ti piaceva del nostro paese?

    «Soprattutto quel senso di immaterialità che il passato offre come un dono impalpabile. Quell’immensa archeologia fatta di reperti, di storie, di gesta non sarebbe nulla senza l’idea di un invisibile che la governa».

     

    Invisibile è una parola eterea.

    «Le forme sono invisibili prima che prendano un corpo ».

     

    Pensi anche a Dio?

    «Semmai ai numerosi dèi. C’è in me abbastanza panteismo da nutrire ciò che sto dicendo».

     

    E le tue radici ebraiche?

    «Poco ortodosse e molto laiche. Credo abbia influito un vecchio nonno poliglotta, chirurgo e socialista. In Union Square sopra un palchetto arringava la gente spiegando i valori del socialismo. Non so quanto seguito ebbe. Da lui appresi a diffidare dei monoteismi».

     

    Vivi in un paese cattolico.

    dario franceschini dario franceschini

    «Lo so, ma quello che avverto è una certa indulgenza. Che non mi dispiace. E poi non è questo il punto vero. Ho ottenuto molto dall’Italia. Ho acquisito cultura, amici, amore. Penso che il mio dovere sia anche, al di là delle specifiche competenze, di restituire qualcosa. Nella mia vita ha molto contato il caso e la fortuna. Essere al posto giusto nel momento giusto. Non lo decidi. Ti ci trovi. E a quel punto scegli cosa fare».

     

    Ti sorprendi mai davanti a questa tua ininterrotta continuità professionale?

    «Chiamala pure fedeltà a certi principi. Perché sorprendermi? Poche regole ma essenziali».

     

    Vivi in una casa piccola e spoglia.

    DANIEL BERGER DANIEL BERGER

    «A misura del mio sentire. Amo cucinare con pochi amici per volta. Dialogare e vivere l’arte senza imperativi. Non colleziono. Come vedi le pareti di casa sono disadorne. Se voglio vedere l’arte vado in un museo, in una galleria, in una chiesa. La bellezza è un’esperienza pubblica che puoi vivere privatamente».

     

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