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Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” - Estratti
Chi comanderà nell’America di Trump?
È possibile che sarà un nuovo leader politico, che ha alle spalle una storia unica.
A lanciarlo è stato un libro: la propria precoce autobiografia, in cui una parte dell’America ha riconosciuto se stessa.
Lo stile di Trump lo conosciamo.
Narcisista, attento più alla propria persona che al proprio Paese, capriccioso, tonitruante, poco interessato ai vari dossier, concentrato sulle poche cose che gli stanno a cuore.
jd vance e donald trump discorso della vittoria
Dietro di lui c’è bisogno di un lavoratore, una persona di costanza, un mediano che vada su tutti i palloni, un pianificatore che dia respiro e tenuta a un’amministrazione che sarà affidata più agli umori del presidente che non a una visione o anche solo a un progetto.
E allora ecco lui.
Ecco il signore barbuto, un po’ corpulento, il look di chi è poco abituato a vestirsi elegante — camicia color crema, cravatta violacea —, che si è affacciato sul palco nella notte della vittoria, un po’ arrogante, un po’ intimidito in mezzo alla famigliona Trump.
Il terzo più giovane vicepresidente della storia. Il primo millennial alla Casa Bianca.
j.d. vance usha chilukuri
Ha compiuto quarant’anni il 2 agosto, sotto il segno del leone, come Obama: James David Vance, detto J.D., pronuncia Gei Di.
Uno che dei suoi familiari e amici ha scritto: «Quasi tutti hanno grossi difetti. Alcuni hanno cercato di uccidere qualcun altro, e uno o due ci sono anche riusciti. Alcuni hanno abusato, fisicamente o psicologicamente, dei loro figli. Ma io li amo tutti. In questa storia non ci sono cattivi.
C’è solo una banda sgangherata di hillbilly».
Il libro si intitola proprio così: Hillbilly Elegy . In italiano è diventato Elegia americana , perché hillbilly non significa nulla. Letteralmente è il «ragazzo delle colline», il montanaro. Indica la classe popolare degli Appalachi, la spina dorsale d’America, che è passata dai democratici ai repubblicani, man mano che i primi diventavano il partito dell’establishment e i secondi il partito populista.
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La storia personale di J.D.
Vance è dura: il padre, dal fatale nome di Donald, drogato; la madre Beverly impegnata a inseguire i suoi amanti. Lui è stato cresciuto dai nonni, anche loro tipi particolari: lui, James, alcolista, lei, Bonnie, un’erinni capace da ragazza di sparare e colpire un ladro, e da adulta di distruggere un negozio perché il commesso era stato scortese con il figlio bambino, zio Jimmy.
La storia di J.D. Vance è a lieto fine: diploma al liceo, servizio militare nei marines — non in prima linea, nell’ufficio stampa —, laureato in legge a Yale, autore di un’autobiografia di successo — a trentun anni — da cui è stato tratto un film, imprenditore high tech tipo piccolo Musk, senatore dell’Ohio, vicepresidente. Ma è lui stesso ad avvertire: «Chi, come me, ha avuto la fortuna di realizzare il sogno americano, si porta dentro per sempre i fantasmi della vecchia vita».
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Questi fantasmi sono riaffiorati nella sua campagna elettorale, costeggiata di inutili durezze — come quando ha definito Kamala Harris «spazzatura», termine davvero abusato nella politica americana — e volgarità controproducenti, come quando ha chiamato Alexandria Ocasio-Cortez e la stessa Kamala Harris «infelici gattare senza figli», provocando la reazione della popstar più amata del momento, che ha firmato così la sua (inutile) invettiva contro Trump-Vance: «la gattara senza figli Taylor Swift».
(...)
Ed era stato un aspro critico di Trump, prima di convertirsi ed essere scelto come vice al posto del governatore della Virginia Glenn Youngkin.
il duello tv tra tim walz e jd vance 8
Youngkin è un politico di sicuro avvenire, ma ha due difetti: ex giocatore di basket, è molto alto, persino più di Trump, tanto che quando sale sul palco dopo qualcun altro preferisce alzarsi il microfono anziché abbassarlo; ed è il classico Wasp, bianco anglosassone protestante. «Io non sono un Wasp — ha scritto Vance —. Sono bianco, ma non mi identifico con i privilegiati. Mi identifico con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese»: gli hillbilly, appunto.
«I nostri antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori, e infine meccanici e operai. Siamo leali e amiamo la famiglia e la patria. Ma non ci piacciono gli estranei e i diversi».
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Compresi neri, latinos, omosessuali e in genere «foresti», cui il sistema dedica più attenzioni che a loro. È l’America insofferente delle élites, del politicamente corretto, della cultura woke californiana e newyorkese: che errore per la Harris far chiudere la campagna in Wisconsin da Ocasio-Cortez, non perché ami i gatti, ma perché rappresenta tutto quello che gli hillbilly detestano.
Il Wisconsin e lo stesso Ohio non sono tecnicamente terra di hillbilly; ma dalle colline del Kentucky la famiglia Vance e quelli come loro sono saliti al Nord, per lavorare nelle miniere, nelle fabbriche, nelle acciaierie. Che sono state chiuse. Però J.D. non è tenero neppure con la sua gente. Nel libro scrive una cosa fondamentale per capire non solo il rancore, ma anche l’immobilismo del proletariato bianco.
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Racconta di quando lavorava per 13 dollari l’ora in un’azienda di distribuzione di piastrelle — «non si ha idea di quanto pesino le piastrelle» —, e del suo collega Bob, assenteista, scansafatiche, capace di chiudersi in bagno per un’ora intera, per poi protestare quando viene inevitabilmente licenziato:
(...) «Ho capito come si possa reagire a una situazione negativa nel peggior modo possibile, come si sia affermata la cultura che promuove il decadimento sociale anziché combatterlo» scrive Vance. Per lui, i poveri non hanno sempre ragione. Gli hillbilly sono vittimisti, permalosi. Chi denuncia la loro condizione diventa il peggiore dei nemici.
JD VANCE IN CAMPAGNA ELETTORALE A CHARLOTTE, NORTH CAROLINA - FOTO LAPRESSE.
Un malato per guarire deve voler guarire, e prima ancora riconoscere di essere malato.
Finché ci si racconta che va tutto bene, e si attacca chi dice che invece c’è un problema, il problema non si risolverà mai.
Ora J.D. Vance ha una grande opportunità di passare dalla letteratura all’azione, dalla campagna elettorale al governo. Nella notte della vittoria aveva al fianco una persona per lui molto importante, che Trump ha presentato come «la meravigliosa Usha».
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È la moglie, avvocata californiana conosciuta a Yale. La sua moderazione sarà preziosa. Sarà la prima hindu a entrare alla Casa Bianca. E, se le voci che cominciano a correre nel clan presidenziale sono vere, potrà essere la prima first lady di origine indiana, quando il trumpismo dovrà trovare il successore di Trump.
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