Peppe Aquaro per www.corriere.it
SABRINA MISSERI
Volendo sgomberare il campo dal gossip tra il rosa e il nero, diciamo subito che le due donne, mamma e figlia, hanno partecipato attivamente al laboratorio. «Sabrina era attentissima, e dopo poche settimane era in grado di riconoscere le differenze stilistiche tra un quadro di Picasso e uno di Max Ernst», dice Giulio De Mitri, l’artista e docente tarantino, insegnante all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, autore di un laboratorio artistico all’interno della Casa circondariale «Carmelo Magli» di Taranto. Uno studio iniziato nell’autunno dello scorso anno e dedicato alle donne detenute nell’istituto penitenziario pugliese.
Tra le venti donne recluse incuriosite dalla forza del gesto estetico dell’arte c’erano, appunto, Sabrina Misseri e sua mamma Cosima, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Cosa c’entri questo particolare con «L’altra città», il percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana, iniziato in queste ore e che andrà avanti fino al prossimo 15 giugno, è presto detto: dietro le sbarre, quando si chiudono i contatti con l’esterno, siamo tutti uguali.
sara scazzi
O per lo meno non siamo più ciò che credevamo d’essere. È l’assunto dal quale sono partiti il teorico e critico d’arte Achille Bonito Oliva e Giovanni Lamarca, comandante del reparto di Polizia penitenziaria della casa circondariale tarantina. Su Bonito Oliva, il personaggio, ci torneremo.
Prima però è l’appassionato d’arte in divisa, Lamarca, collezionista a modo suo, e soprattutto attento osservatore dell’animo umano, il protagonista di questa vicenda: «L’idea del progetto mi è venuta qualche anno fa. Poi altre persone, come la sociologa Anna Paola Lacatena, l’artista De Mitri, il critico Roberto Lacarbonara, e l’attore Giovanni Guarino, mi hanno aiutato a dare consistenza a un’idea. Ma le vere protagoniste sono state le donne, qui dentro, in grado di raccontare, attraverso un’esperienza di pratica artistica, il loro vissuto detentivo. Emozionandosi e commuovendosi».
SABRINA MISSERI
Soprattutto quando hanno visto le loro facce con i rispettivi nomi sul catalogo della mostra, pubblicato da Gangemi editore, i cui proventi della vendita sono destinati all’associazione di volontariato penitenziario «Noi e Voi», ente promotore del progetto. Parliamo di donne coinvolte in reati che vanno dallo spaccio all’omicidio. La cui privacy, provando a definirla così, è stata «invasa» dalla società civile introdotta nell’ambiente carcerario. Il percorso compiuto dal visitatore (si è ammessi uno alla volta alla fruizione dell’installazione) è, infatti, all’interno della sezione femminile del carcere.
Dopo aver superato una tenda nera, una sorta di filtro tra l’esterno e il carcere, ecco un corridoio completamente grigio, come le inferriate ai lati. Si passeggia su una pedana di plastica sotto la quale sono state poste le carte d’identità dei parenti dei detenuti. Ma il colpo d’occhio è subito dopo: in alto, dove sono state appese, a grappolo, un centinaio di foto delle recluse, da scansare con le mani mentre si cammina.
Cosima e Sabrina Misseri
«Ogni spazio della visita è sorvegliato da un poliziotto penitenziario: per l’occasione agenti in pensione, i quali, re-indossando la divisa, è come se interpretassero una parte non più loro», dice Lamarca, ricordando come gesti e frasi di questi addetti (un copione bello e buono) siano stati suggeriti dall’attore Guarino.
SABRINA MISSERI
Dopo, si entra nell’ufficio matricole, dove si è sottoposti all’impronta digitale del pollice e all’immatricolazione. «Perché lo spettatore è obbligato a sottoporsi a tutte le procedure di riconoscimento per entrare nel luogo fino a lui inaccessibile», ricorda Bonito Oliva, sottolineando che «mentre nelle mostre tradizionali la fruizione è collettiva e simultanea, qui, nel carcere, è una esperienza individuale che punta sull’isolamento e la riflessione».
Un’altra tenda nera, dietro la quale c’è la «nostra» cella. Chiusura delle sbarre, giro della chiave da parte dell’agente penitenziario. Tre minuti da soli. In silenzio. Il passaggio successivo è nella cella «Nuovi giunti», circondati dalle frasi delle detenute. In fondo, su un materasso richiuso, il necessario per la prima accoglienza: gavetta, spazzolino e dentifricio. La terza cella è quella ordinaria, dove si trascorrerà la propria detenzione. Sulla parete, tra le carte processuali, è stata appesa una stampa del quadro di Francisco Goya, «Il Tribunale dell’Inquisizione».
I necessari tre minuti, il giro di chiave da parte dell’agente, e si viene trasferiti nella cella d’isolamento, dipinta di nero. Qui si entra per una grave infrazione del regolamento. È il momento più intenso della visita. L’opposto della cosiddetta cella dimittendi. Le detenute-artiste hanno appeso al muro farfalle e rose realizzate col cartoncino. C’è una forte luce azzurra di speranza, oltre ad una clessidra, lenta, come il tempo che non passa mai. Ma sono «solo» tre minuti a separare il visitatore dal suo foglio di via, da ritirare dopo aver riattraversato la foresta di visi sulle pareti. L’altra città è ormai alle spalle.
SABRINA MISSERI