SALLUSTI E FELTRI
1. CARO SCALFARI, NON PUOI DARE LEZIONI A NESSUNO
Alessandro Sallusti per ''Il Giornale''
Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano la Repubblica, ieri sul suo giornale ha scritto un lungo (e noioso come sempre) articolo zeppo di insulti contro Vittorio Feltri e chi, come noi, sostiene che lui e tanti altri intellettuali e giornalisti furono, nel 1971, i mandanti morali e politici dell' omicidio del commissario Calabresi di cui in questi giorni cade l' anniversario. Firmarono un appello, questi fenomeni, che sapeva di condanna a morte, che infatti poco dopo fu eseguita dai compagni di Lotta continua.
Oggi, a distanza di quarantacinque anni, Scalfari scrive che noi siamo «ciarpame» e svela di avere recentemente chiesto personalmente scusa alla vedova Calabresi per quella sciagurata firma sull' appello del 1971.
clb15 scalfari mario calabresi
Questo mascalzone pensa insomma che l' omicidio Calabresi sia stato, e sia ancora oggi, un fatto privato tra lui e i familiari della vittima, come fanno i banditi comuni pentiti - spesso per convenienza processuale - dei loro «raptus».
No Scalfari, quell' appello non fu un «raptus» ma la libera scelta di stare dalla parte sbagliata - come poi si è dimostrato - della storia e per di più in modo criminale. Che oggi diventa furbo, perché non vuole ammetterlo né pagare pegno. Per Scalfari il «ciarpame» siamo noi, che Calabresi lo avremmo difeso fisicamente se ne avessimo solo avuto la possibilità, non lui e i suoi amici killer.
È incredibile come in questo Paese ci sia gente in galera per «concorso esterno in associazione mafiosa» e quelli che fecero «concorso esterno in associazione terroristica» l' abbiano sfangata e ancora oggi si permettano di pontificare e giudicare. Essere di sinistra è stato per troppo tempo un salvacondotto che ha fatto più danni che se lo avessimo concesso a Vallanzasca.
mario calabresi eugenio scalfari
Ma adesso basta, Scalfari. Gente così dovrebbe togliersi di mezzo, ha perso su tutti i fronti. Questo giornale, per il coraggio e la visione, è stato fin dall' inizio dalla parte che la storia ha dimostrato essere quella corretta, non la Repubblica e l' utopia socialista che tanti danni ha fatto e continua a fare. Purtroppo sotto la regia di un direttore che porta lo stesso cognome del commissario Calabresi.
2. SCALFARI RISCRIVE LA STORIA. PER ASSOLVERSI
Adriano Scianca per ''La Verità''
Forse anche voi avete un vecchio zio che insiste, di tanto in tanto, per somministrarvi interminabili pistolotti conditi da ricordi sbiaditi e rimbrotti bacchettoni. Ci sta e ve li sorbite. I vostri zii, tuttavia, non sono autoproclamate «autorità morali» di questa nazione, non scrivono su uno dei principali giornali del Paese e soprattutto non inquinano le acque rispetto a uno degli episodi più tragici della storia italiana: l' omicidio del commissario Luigi Calabresi. A meno che non siate i nipoti di Eugenio Scalfari.
LUIGI CALABRESI
A pochi giorni dal 45° anniversario di quell' assassinio, Barbapapà usa il quotidiano diretto dal figlio del commissario, Repubblica, per dichiarare che la sua firma nel famoso appello contro Calabresi fu un errore. Ma lo fa al termine di una serie di ricordi confusi, salti logici, omissioni colpevoli, narcisistiche divagazioni, inconcludenti parentesi, revisionismi interessati, scorrettissimi ammiccamenti, per cui alla fine la toppa è di gran lunga peggiore del buco.
L' idea, dice, sarebbe quella di «ricordare il tema» e «aggiungere qualcosa che fino ad oggi era rimasto un fatto privato» al fine di «chiarire una vicenda che coinvolse in qualche modo l' Italia democratica (e anche quella antidemocratica)». Caspita. Detta così par di capire che il giornalista stia per tirare fuori dai suoi archivi qualche fatto cruciale di cui lui è stato testimone e che potrebbe far luce su un caso controverso.
IL LUOGO DELL OMICIDIO DI LUIGI CALABRESI
Diciamo subito che nell' articolo non c' è nulla di tutto questo, solo una ricostruzione da Wikipedia del contesto dell' epoca e un bislacco tentativo finale di sfilarsi dall' accusa di corresponsabilità morale, mossa da più parti nei confronti di tutti i 757 intellettuali, giornalisti e politici che sottoscrissero l' appello dell' Espresso sui «commissari torturatori», i «magistrati persecutori» e i «giudici indegni».
Per infiocchettare il suo temino sugli anni Settanta, e soprattutto per scagionare gli anarchici dall' accusa di aver compiuto la strage di piazza Fontana, Scalfari ha pensato bene di buttare lì, per vedere l' effetto che fa, qualche dato storico a casaccio. Scrive il fondatore di Repubblica: «La parte violenta degli anarchici non aveva mai infierito contro la popolazione anonima, com' era accaduto alla Banca dell' Agricoltura. I suoi obiettivi semmai erano persone molto potenti. Così agivano certi anarchici non solo in Italia ma anche in Europa e in altri paesi: il regicidio.
GIUSEPPE PINELLI
E così era stato ucciso Umberto I re d' Italia e qualche anno dopo a Sarajevo uno dei figli dell' imperatore d' Austria scatenando in quel caso addirittura la prima guerra mondiale 1914-'18». Ora, già spiegare i fatti degli anni Sessanta e Settanta ricorrendo a questioni antecedenti la Grande guerra è esercizio discutibile. Se poi l' esempio pesca dati a caso, la situazione non migliora.
Il politologo Alessandro Campi ha avuto buon gioco, infatti, nel bacchettare Scalfari su due sviste storiche: «Francesco Ferdinando, ucciso a Sarajevo, non era il figlio dell' imperatore Francesco Giuseppe, ma il nipote; il suo assassino Gavrilo Princip non era un anarchico, come Gaetano Bresci attentatore di Umberto I, ma un nazionalista serbo», ha scritto lo studioso sul suo profilo Facebook, polemizzando con il giornalista. Errori veniali, ma quando si parla come il verbo dell' impegno civile incarnato ci si espone anche alle pernacchie.
NAPOLITANO CON VEDOVE PINELLI E CALBRESI
Ma c' è di peggio: in tutto l' articolo si cercheranno invano le parole «Lotta» e «Continua». Calabresi, semplicemente, a un certo punto viene ucciso. Da chi? Mistero. Eppure qui dei colpevoli, almeno per la giustizia italiana, ci sono, con tanto di sentenze definitive. Ma se non si ricorda che Calabresi fu ucciso da un commando di estrema sinistra, non si capisce bene tutto l' imbarazzato giro di parole di Scalfari sul punto che gli sta veramente a cuore: l' appello dell' Espresso.
Anche qui, però, la reticenza la fa da padrona: il testo, scrive il giornalista, «fu stilato» e «fu discusso da un gruppo del quale anch' io facevo parte». Bizzarra perifrasi per non dire: «Anche io firmai». E infatti, leggendo il testo, non si capisce proprio che Scalfari firmò. Né si entra nel merito del testo, se non per dire pudicamente che vi si chiedeva «l' allontanamento del commissario Calabresi dalla sua sede di lavoro». Nessun accenno ai «commissari torturatori».
Raccontata così, sembra una cosa innocua. Anzi, una cosa chic, dato che Scalfari si dà la pena di aggiungere che, tra i firmatari, c' erano anche Rossana Rossanda e Umberto Eco. Un appello che piace alla gente che piace, quindi.
LOTTA CONTINUA
Poi, nel finale, Scalfari tira fuori il coniglio dal cilindro: le scuse fatte alla signora Gemma, la vedova Calabresi, nel 2007. «Parlammo brevemente dei fatti del passato, del manifesto e delle firme, le dissi che quella firma era stata un errore. Lei accettò le mie scuse e si commosse». Un modo brillante per cavarsi d' impaccio: tirare in ballo la vedova per zittire i critici. Che classe. Salvo che i chiarimenti fra le persone appartengono all' aspetto umano della vicenda, le colpe politiche restano tutte lì, in attesa di un' autocritica che probabilmente non vedremo mai.
Ma, sfortunatamente, abbiamo fatto in tempo a vedere il finale di questo articolo, in cui si ha il coraggio di citare «il figlio Mario, che allora era corrispondente di Repubblica da New York e che ora, da oltre un anno, dirige questo giornale».
Ha dato anche il suo giornale al figlio di Calabresi, come vi permettete di scocciarlo ancora?
Davvero elegantissimo.