Francesco Crispino per "il Fatto Quotidiano”
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È una storia tragica quella di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Non solo perché è annodata a uno degli eventi più drammatici vissuti dal nostro paese dal secondo dopoguerra. Non tanto perché la ricezione del film, proprio per questo motivo, ne è stata profondamente condizionata. Quanto perché è servita a rendere inefficace uno dei concetti-chiave della visione poetica del suo autore.
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Quel concetto che Pier Paolo Pasolini, alla ricerca di una consonanza tra Cinema e Vita, aveva espresso qualche anno prima equiparando l' azione del Montaggio a quella della Morte (Osservazioni sul piano-sequenza, 1967).
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Due termini fondamentali per capire la sua opera e che, accostati qui come una correspondance baudelaireiana, lo avevano portato a sostenere il celebre paradosso in cui "solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve a esprimerci". Se dunque si accetta che sia la Morte ad assegnare il senso definitivo alla Vita come suggerisce Pasolini, diventa decisiva l' interpretazione che si vuole dare ai fatti avvenuti all' Idroscalo di Ostia nella notte tra l' 1 e il 2 novembre del 1975.
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Interpretarli come una legittima difesa conseguente a un rapporto omosessuale mercenario, ovvero come la versione fissata dal processo d' appello che ancora oggi è quella "ufficiale"? Oppure come un infame agguato in cui concorrono criminalità, servizi deviati e massoneria, come sembrano invece dimostrare le innumerevoli prove e testimonianze raccolte nel corso degli anni (e ben organizzate da Simona Zecchi in Massacro di un poeta)? Il giudizio sulla vita del poeta-cineasta - così come sulla sua ultima opera - cambia a seconda del modo nel quale viene valutata la sua scomparsa. E proprio nella distanza tra le due interpretazioni è situata la maledizione di Salò. Un' opera premonitrice quanto ineffabile, la cui valutazione ha inevitabilmente risentito degli eventi che ne hanno preceduto l' uscita.
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Sopraffatta da ciò che intorno a essa si è coagulato, irrimediabilmente segnata dal "massacro tribale" di cui è stato oggetto il suo autore. Fin dalla sua genesi d' altronde, Salò si delinea come un' opera atipica per Pasolini, a cominciare dal fatto che per la prima volta eredita un progetto non suo. Inizialmente il film era stato infatti proposto a Sergio Citti dalla PEA di Alberto Grimaldi, e il regista di Accattone vi aveva collaborato dando qualche suggerimento - tanto che la prima versione della sceneggiatura è firmata dallo stesso Citti insieme a Pupi Avati e Claudio Masenza.
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È solo quando il "pittoretto della Maranella" se ne "disamora" che Pasolini lo rileva, individuandolo come il progetto adatto per rimarcare la cesura con la Trilogia della vita (Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte), dalla quale aveva da poco preso le distanze attraverso la famosa "abiura". Tuttavia a ben vedere Salò ha più di un elemento di continuità con la trilogia che lo precede, sebbene essi siano tutti sottoposti a netti cambiamento di segno: il corpo e i rapporti umani - che ne Il fiore erano "ancora reali, benché arcaici, benché preistorici" - vengono qui reificati e sclerotizzati; il sesso là vissuto liberamente e gioiosamente, qui muta in un atto cupo, coatto e regolamentato; la presenza della dimensione onirica passa dal sogno (dell' Eden pre-storico) all' incubo (della Storia e del suo andamento ciclico).
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Proprio la (contro)narrazione organizzata intorno al tragico omicidio e l' incapacità di riconoscere gli elementi di continuità/discontinuità con l' opera pasoliniana, sono stati alla base del travisamento del senso di Salò. Che rimane una delle opere più complesse dell' autore come sintetizzò subito Mario Soldati ("l' opera di un poeta che ha ficcato intrepidamente lo sguardo nella tragica oscurità del cuore umano e che ha tentato di risalire dai sintomi alla causa"), nella quale la sua indiscutibile dimensione "corsara" e profetica tocca forse il proprio apice.
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Al punto che nella dimensione allegorica di matrice medievale che informa il film c' è chi vi ha addirittura individuato la prefigurazione dei reality show, laddove troviamo egualmente uno spazio delimitato e sottoposto a regole ben precise, una narrazione che guida e precede l' azione, prove da superare e le delazioni/nomination che portano alle "eliminazioni".
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D' altronde la maledizione di Salò riflette quella che segnò il testo di cui il film è la trasposizione. Le 120 giornate di Sodoma fu infatti scritto - senza peraltro essere completato - dal "divin marchese" De Sade durante la sua prigionia alla Bastiglia nel 1785, ma il manoscritto originale fu smarrito durante la sua "presa" del 14 luglio 1789 e bisognerà addirittura attendere l' inizio del secolo scorso perché venga pubblicato. Quella del film invece ha inizio nell' estate del 1975 quando, durante la chiusura ferragostana, vengono rubate alcune pizze di negativo dagli stabilimenti della Technicolor.
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Uno "strano furto" cui segue un tentativo di estorsione e che si delinea come la prima tappa del mortifero percorso terminato all' Idroscalo. La maledizione del film prosegue anche dopo, con denunce e sequestri "per oscenità" che hanno reso a lungo l' opera invisibile. Almeno fino al restauro del 2015 della Cineteca di Bologna che l' ha riportata al magnifico cromatismo originario e che è stata giustamente premiata con il "Leone" della sua categoria alla Mostra di Venezia.
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Permettendo così, a quarant' anni di distanza una nuova, finalmente regolare, distribuzione. Oggi come allora comunque, Salò rimane un' opera perturbante, dalla quale è impossibile uscire indenni.
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