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    C’ERA UNA VOLTA LA TRATTATIVA - LE ASSOLUZIONI DI MANNINO E MARIO MORI SONO UN COLPO DURISSIMO AL “RITO PALERMITANO”: 20 ANNI DI INCHIESTE PER TENTARE DI DIMOSTRARE CHE TRA I VERTICI DELLO STATO E COSA NOSTRA CI FURONO ACCORDI, PATTI E INCONFESSABILI SCAMBI


     
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    Attilio Bolzoni per “la Repubblica

     

    CALOGERO MANNINO CALOGERO MANNINO

    Su certi misteri siciliani cala per sempre il sipario. Siano covi mai perquisiti o latitanti mai presi, le accuse crollano e i reati cadono. Probabilmente andrà a finire così anche per gli indicibili patti fra Stato e mafia.

     

    Il processo per la mancata cattura di un boss che per quarant’anni è stato un fantasma dà il colpo di grazia a quello che qualcuno, maliziosamente, ha bollato come il «rito palermitano» della giustizia. E poco importa che sia una sentenza d’appello, è un verdetto che va oltre il verdetto: cancella un modo di fare indagini con gli imputati che vengono sempre assolti.

     

    Mario Mori Mario Mori

    Come in primo grado. Ci sono due alti ufficiali dell’Arma, poi transitatati nei ranghi del servizio segreto civile, che vengono scagionati «perché il fatto non costituisce reato». Ci sono giudici che demoliscono un impianto investigativo che — nonostante gli aggiustamenti della procura generale in corso d’opera — mette sotto seria ipoteca il processo per la cosiddetta trattativa.

     

    Dopo l’assoluzione di qualche mese fa dell’ex ministro Calogero Mannino — indicato lui stesso e per paura all’origine di un «accordo» fra apparati e capi del clan di Corleone — la decisione della Corte d’Appello sancisce ormai quasi definitivamente una «linea» su questi procedimenti istruiti una ventina di anni fa dalla procura palermitana.

     

    Nitto Santapaola senza baffi Nitto Santapaola senza baffi

    Dalla casa incredibilmente incustodita dove si nascondeva nel 1993 Totò Riina con sua moglie Ninetta e i loro quattro figli all’arresto schivato del 1995 di Bernardo Provenzano nelle campagne di Mezzojuso, due vicende che portano diritte al famigerato negoziato fra pezzi dello Stato e l’ala stragista di Cosa Nostra, che rotolano nel processo che si sta ancora celebrando a Palermo e che inevitabilmente lo condizioneranno.

     

    Il principale protagonista di questi intrighi è sempre uno, il generale Mario Mori, ex comandante dei reparti speciali dell’Arma e poi nominato dal governo Berlusconi a capo delle spie per la sicurezza interna. È sempre lui che, secondo i magistrati dell’accusa, si è ritrovato intorno e in mezzo a «gialli» siciliani che hanno segnato l’antimafia poliziesca più ambigua dopo il tritolo di Capaci e l’autobomba di via D’Amelio.

     

    toto riina toto riina

    Fra le pieghe delle sue assoluzioni i giudici citano spesso «opacità», «ritardi», «errori», «scelte operative discutibili» ma niente che possa confermare l’esistenza di un patto fra l’alto ufficiale e il nemico. È questa la sostanza delle sentenze dei Tribunali e delle Corti di Appello nei vari dibattimenti contro Mario Mori.

     

    Un ufficiale con fama di super-investigatore ma a quanto pare un po’ pasticcione, sicuramente non colluso. Un servitore dello Stato sfortunato nel finire sempre negli impicci, ma indubbiamente non sleale.

     

    Bernardo Provenzano Bernardo Provenzano

    L’ultimo pronunciamento dei giudici di Palermo chiude di fatto una stagione giudiziaria e — piaccia o non piaccia — avverte i procuratori di cambiare strada, metodo, il loro modo di costruire inchieste. Ma porta con sé anche qualche contraddizione.

     

    La prima perplessità riguarda la credibilità della «fonte » intorno alla quale si è impiantato il processo per Provenzano non arrestato: il mafioso Luigi Ilardo, il boss che aveva confidato al colonnello Riccio il luogo dove nel 1995 si sarebbe potuto arrestare il vecchio Bernardo. Nessuno gli ha creduto (nemmeno i giudici), nessuno tranne Cosa Nostra. Un anno dopo le sue rivelazioni, Ilardo sarà ucciso per il suo tradimento.

     

    OMICIDIO LUIGI ILARDO OMICIDIO LUIGI ILARDO

    La seconda contraddizione affiora dalla trasmissione degli atti ai pubblici ministeri delle deposizioni di sei carabinieri — uno dei quali è il colonnello Sergio De Caprio, il famoso Ultimo dell’ancora indecifrabile cattura di Riina — per valutare se abbiano commesso falsa testimonianza su un episodio accaduto nel 1993 in provincia di Messina, a Terme Vigliatore.

    Sergio De Caprio Sergio De Caprio

     

    Lì, Ultimo e gli altri carabinieri avrebbero — secondo l’accusa — sparato contro un passante per far fuggire il boss di Catania Nitto Santapaola. Una «coda» delle puntate precedenti. Un’altra inchiesta che parte, forse un altro processo. Dopo la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, la mancata cattura di Bernardo Provenzano, ora il mancato arresto di Nitto Santapaola. Al di là delle sentenze questa storia dei latitanti di mafia sembra non finire mai.

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