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Daniela Mastromattei per "Libero Quotidiano"
Ci mancava solo la "sindrome dell'impostore": ora gli psicologi affibbiano questo presunto disturbo psicologico al lavoratore troppo zelante, quello che piace tanto alle aziende. Una strana condizione mentale, dal nome curioso, di cui in effetti soffrono coloro che, a prima vista, impostori proprio non sono. Direbbe Socrate: sono quelli che «sanno di non sapere».
I quali, avendo ottenuto promozioni e riconoscimenti del proprio valore, di quel successo si sentono indegni. Intimamente convinti di essere inadeguati, vivono pensando di non valere nulla e con la paura di essere smascherati da un momento all'altro da chi li ha assunti. Già qualche tempo fa la Bbc raccontava che nessuno ne è immune, "attacca" scrittori e musicisti, uomini d'affari, professionisti. Le donne, specie quelle che ottengono buoni risultati in ambienti di lavoro prettamente maschili, ne risentono più degli uomini.
E anche se il fenomeno è stato timidamente identificato per la prima volta quarant' anni fa dalle americane Pauline Clance e Suzanne Imes, gli psicologi dicono che sembra essere sempre più diffuso nel mondo odierno, ipercompetitivo ed economicamente insicuro. Come riconoscere i "malati" (si fa per dire)? Sono ansiosi, perfezionisti, dubbiosi e hanno paura di fallire. Diventano maniaci del lavoro, faticano più ore di tutti gli altri, non si prendono mai del tempo libero e non riescono a rilassarsi. Perfezionisti fino alla sfinimento: non sono mai soddisfatti delle proprie performance, ma non delegano.
Non chiedono mai aiuto: eccessivamente indipendenti non riescono a lavorare pienamente con il proprio team. Pretendono di essere esperti: hanno sempre bisogno di sapere tutto senza poi riuscirci. Una tendenza, secondo l'International Journal of Behavioral Science, comune a circa il 70% (un'esagerazione: ma sarà vero...) delle persone, indipendentemente dal settore professionale e dal livello di carriera. Alla radice, non c'è un'unica causa scatenante.
Alcuni dottori ritengono che molto dipenda dai tratti della personalità, più o meno portata all'ansia o a una forte insicurezza. Altri, invece, si focalizzano su cause comportamentali, come il fatto di crescere con genitori ipercritici o di trovarsi in competizione con un fratello o una sorella.
Anche sentire di non appartenere a una comunità (o a un gruppo) può contribuire a determinare pensieri riduttivi su di sé. Quel costante senso di inferiorità non viene certo attenuato da una società che guarda solo ai risultati professionali ed economici. Anzi, è proprio l'ambiente in cui si vive (e lavora), proiettato verso una competizione insidiosa, spesso a scatenare e ad alimentare il dubbio dell'inadeguatezza. Come se ne esce? Dubitare di se stessi, alimenta l'insicurezza.
Per quanto potrebbe sembrare paradossale, dalla sindrome dell'impostore non ci si libera mai completamente, tuttavia si può gestire, imparando a conviverci e a tenerla sotto controllo, dandosi la possibilità di sbagliare. Saper accettare gli errori, è l'unico modo per non temerli.
Di sicuro le aziende, più che gli affetti dalla sindrome dell'impostore, temono di più i prigionieri dell'effetto Dunning-Kruger: quelli che non hanno mai dubbi, convinti di sapere tutto. Non sanno riconoscere i propri limiti, né le capacità (superiori) degli altri. Loro sì che sono degli incompetenti irrisolti, frutto di un immobilismo senza via di scampo. E purtroppo tendono pure a sovrastimare le proprie prestazioni. Da tenere alla larga.
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