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Vera Martinella per il “Corriere della Sera”
Dopo anni di discussioni e la raccolta di una vastissima mole di dati, la comunità scientifica ha trovato un accordo sul test del Psa come strumento di prevenzione per la diagnosi precoce del tumore alla prostata: l'esame è utile e va consigliato agli uomini a partire dai 50 anni, ma è fondamentale che la sua esecuzione venga prescritta dai medici seguendo ben precise linee guida per due motivi.
Prima di tutto perché se emergono dati fuori dai valori normali nel referto vanno ben interpretati dall'urologo che li deve spiegare al paziente e c'è a quel punto un nuovo iter di accertamenti da seguire allo scopo di ridurre il numero di biopsie inutili. La seconda ragione è che anche quando si arriva ad appurare la presenza di un tumore a non è detto che questa vada trattato e se non è «pericoloso» è utile promuovere l'utilizzo della cosiddetta sorveglianza attiva.
Come si è arrivati a questa decisione? Importanti studi internazionali hanno coinvolto centinaia di migliaia di uomini in Europa e negli Stati Uniti e i loro esiti sono stati confrontati con le statistiche relative ai nuovi casi diagnosticati e alla mortalità per carcinoma prostatico negli ultimi 20 anni.
RISCHI
«Il cuore del problema è evitare sia il rischio di diagnosi e di trattamenti in eccesso, sia di arrivare tardi alla scoperta del tumore, compromettendo le possibilità di guarigione - spiega Alberto Lapini, presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (Siuro) e responsabile Prostate Cancer Unit all'Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze -. A partire dagli anni Novanta la grande diffusione del test del Psa e l'aumento del numero delle biopsie hanno provocato una crescita delle diagnosi di carcinoma prostatico, in particolare di forme limitate e a basso rischio di progressione dove il trattamento poteva creare più problemi (incontinenza e disfunzione erettile) che vantaggi».
La ricerca scientifica ha infatti confermato che un gran numero di neoplasia prostatiche sono «clinicamente non significative»: si tratta cioè di tumori indolenti , di piccole dimensioni, non aggressivi e che non influiscono sulla vita del malato. Così nel 2008 gli esperti della Task Force americana si sono pronunciati contro l'utilizzo del Psa, ma questo ha portato a un drastico calo nell'esecuzione del test e, conseguentemente, ha determinato un aumento significativo di casi localmente avanzati o metastatici alla diagnosi. «Si potrebbe dire che, basandoci sulle migliori conoscenze scientifiche raccolte negli anni, ora abbiamo finalmente trovato la giusta via di mezzo - prosegue Lapini - e l'Associazione di Urologia Europea (Eau) ha impostato un programma di diagnosi precoce del cancro alla prostata che permette un bilanciamento tra il non fare niente o il fare troppo.
Si tratta di un progetto innovativo (proposto alla Commissione europea nell'ambito del piano per battere il cancro 2021-2027) che è stato sposato e viene portato avanti da tutte le società scientifiche italiane che si occupano di urologia.
ALGORITMO
In pratica, è stato elaborato un algoritmo che prevede un utilizzo «razionale» del Psa, che tiene conto di diverse fasce d'età e dei fattori di rischio degli uomini. E, quando necessario, dopo la visita con esplorazione rettale e in presenza di un Psa sospetto, prevede la valutazione del Psa-density e della risonanza magnetica multiparametrica della prostata come passaggi successivi di approfondimento diagnostico, prima di arrivare a una biopsia».
La densità del Psa mette in rapporto il valore del Psa con il volume prostatico: da prostate più «grandi» ci si aspetta una produzione maggiore (e dunque livelli più elevati) di Psa. La risonanza multiparametrica, inoltre, analizza tre parametri (densità, diffusione e vascolarizzazione) ed evidenzia la morfologia della ghiandola prostatica e delle strutture circostanti e al contempo rileva aree con caratteristiche particolari, diverse nel tessuto sano e in quello tumorale.
«Bisogna che tutti gli uomini abbiano ben presente che valori elevati nell'esito del Psa (il test del sangue che misura l'antigene prostatico specifico) provano la presenza di un disturbo della ghiandola prostatica: può essere un'infiammazione (prostatite), un aumento del volume (ipertrofia), un'infezione o un tumore.
SORVEGLIANZA ATTIVA
Per questo, prima di allarmarsi e di decidere qualsiasi intervento bisogna valutare bene i risultati e procedere, se necessario, con altre indagini» chiarisce Giario Conti, primario di Urologia all'Ospedale S. Anna di Como e segretario della SIUrO. E anche quanto l'iter porta a una diagnosi di cancro, bisogna tener presente che fino a circa il 40 per cento dei casi di carcinoma prostatico corrisponde a tumori «potenzialmente insignificanti».
Quindi, invece di trattarli ed esporre la persona alle conseguenze indesiderate che le tradizionali cure (chirurgia, radioterapia e brachiterapia) possono avere, vanno soltanto tenuti sotto osservazione. «La "sorveglianza attiva" è sicura ed efficace - conclude Conti
Il presupposto su cui si basa questa strategia è che l'evoluzione dei tumori a basso rischio sia così lenta (e solo locale, senza metastasi) da poter evitare o rinviare il trattamento e al tempo stesso mantenere la finestra di curabilità. Se la patologia cambia siamo in grado di interrompere il percorso osservazionale, intervenire tempestivamente e indirizzare il paziente al trattamento».
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